« Le piaceva passeggiare per strada con dei libri sotto il braccio.
Essi rappresentavano per lei ciò che il bastone da passeggio rappresentava per un dandy del secolo scorso.
La distinguevano dagli altri. »
giovedì 28 gennaio 2016
Follia
Titolo originale: Asylum
Autore: Patrick McGrath
Editore: Adelphi
Prezzo: 9,00 euro (Viva gli sconti.)
Photo by Busy Bee ©
Anche se è difficile crederlo, ci sono momenti magici per comprare libri: il periodo degli sconti! Un momento fatato in cui le attrattive già fortissime delle librerie aumentano del 100%. E ti ritrovi fagocitata in una dimensione onirica in cui ti lasci assorbire completamente, beata e immemore delle promesse che hai fatto non appena l'anno nuovo è cominciato. Il fatto è che non puoi controllarti, la tua è più che una ossessione - è una missione: devi salvare quanti più libri puoi dalla solitudine.
Durante una delle mie missioni presso la Mondadori, ho notato la vastissima collezione di Adelphi su cui, in questo periodo, vice il 25% di sconto. Se prima per me era di rito annusarne le pagine, adesso anche la sola vista di una moltitudine di libri - tra cui molti di quelli che ho nella mia wishlist - mi provoca una sorta di vertigine. E' una sensazione quasi catartica, superiore a qualsiasi altra esperienza terrena. Non c'è niente di meglio che avanzare tra una pila di libri, incontrare con lo sguardo una catasta di volumi, notare subito, grazie alla vista da falco acquisita per esperienza, proprio quel titolo di Ian McEwan che desideri e poi, accanto, quasi il destino volesse darti ulteriore prova che le coincidenze non esistono, Lacci di Domenico Starnone. E si da il caso che Einaudi l'abbia edito in edizione economica.
Nonostante le varie provocazioni, si da il caso che anche io posseggo un minimo di auto controllo. Dunque mi sono orientata solo sugli Adelphi. Ce n'erano a centinaia... no, forse centinaia no ma a decine e decine SI. Comunque, visto che ho iniziato a compilare un'agenda su cui meticolosamente annoto i libri che tassativamente leggerò quest'anno, ho cercato solo di trovare i volumi per cui mi ero già decisa. Ero orientata su Faulkner, Bennett, qualcosa di Pietro Citati, Nabokov e Patrick McGrath. La novità è che di quest'ultimo non mi ero impegnata su un titolo in particolare, quindi ho trovato Follia e l'ho aggiunta alla mia piccola pila con una certa soddisfazione.
Solo quando sono arrivata a casa ho letto la trama e per un paio di giorni mi sono lasciata cullare da quella sorta di foschia familiare e ridondante che ti coglie se desideri qualcosa ed è a portata di mano.
Avevo letto L'Abbandono di Heidegger, Festa mobile di Hemingway e Stoner ( l'ho amato ) e adesso volevo cambiare genere, lasciarmi sommergere da qualcosa di nuovo. E infatti ho avuto fortuna, perché Follia è stato una sorpresa su tutti i fronti.
La storia viene raccontata da un narratore, in prima persona, poiché si tratta di uno psichiatra che con apparente distacco riporta tutti gli avvenimenti di una situazione grave avvenuta. Questo tipo di approccio, abbastanza realistico da coinvolgere la mia curiosità, ha suscitato subito una fascinazione molto grande su di me. E poi c'è anche quello che ho scoperto leggendo le informazioni sull'autore stesso: pare che sia cresciuto passando la sua infanzia in un'ospedale psichiatrico, visto che il padre era un medico psichiatra. E' incredibile come un particolare del genere possa suscitare un enorme curiosità.
Lo stile di scrittura è scorrevole, e non l'ho trovato ampolloso o lirico, ma essenziale e ben cesellato. Ho trovato, anzi, che lo stile di scrittura fosse parallelo all'intento dell'autore, cioè quello di rappresentare in modo crudo i fatti.
Il narratore si chiama Peter Cleave ed è uno psichiatra criminale; esercita la professione in un manicomio criminale. Siamo nel 1959, un tempo non troppo lontano da noi ma abbastanza da essere distante riguardo a certi parametri vitali che oggi non esistono più.
McGrath è inglese e anche l'ambientazione lo è, la campagna inglese e non troppo lontana da Londra. Eppure il posto è isolato, tutto quanto è ammantato da quell'atmosfera vittoriana che dipinge tutto di mistero/interesse ma anche di cupezza.
Al centro della vicenda c'è una donna, Stella, moglie e madre, donna frustrata e romantica. Si tratta di una donna rinchiusa in una sorta di microcosmo abitato da soli uomini; uomini che lavorano ( il suo compito, come quello di ogni brava moglie di uno psichiatra, è di occuparsi della casa e renderla confortevole. ) e che hanno il coltello dalla parte del manico, durante le conversazioni, perché sono esperti della mente umana. A uomini del genere non sfugge niente - o quasi - forse solo ciò che a loro fa comodo.
Ovviamente, e me ne sono accorta forse troppo tardi, la lente di ingrandimento attraverso cui questa donna è presentata, non la rappresenta con totale parzialità. Spesso mi sono chiesta come sarebbe stato il racconto se narrato dal marito, dalla suocera, o da lei stessa.
Che Stella sia una donna inappagata, su questo non c'è dubbio. Si tratta di uno spirito impulsivo e intenso, tenuto in gabbia da un matrimonio "nella media". La sua relazione col marito Max non ha nessun picco di passione o felicità, e si capisce che non ne ha mai avuti molti. Neanche loro figlio - il piccolo Charlie - riscuote molta attrattiva presso la madre.
L'altro polo presso cui le attenzioni si raccolgono è Edgar Stark, paziente del manicomio criminale. Edgar è, secondo definizione, un'uxoricida paranoide.
La brutalità del suo passato viene sbattuta in faccia a Stella immediatamente, dal loro primo incontro.
Nel piccolo mondo del manicomio criminale, i pazienti in semi libertà svolgono dei lavori presso le case dei medici. Ed è così che i due incrociano i loro destini.
"Perché sei qui?"
"Ho ucciso mia moglie."
"Perché?"
"Mi tradiva."
Quello che non riuscivo ad accettare, in questa parte del romanzo, era la totale incapacità di Stella di rendersi conto della situazione. Era attratta da un assassino, ma non sembrava fare caso alla gravità celata negli occhi così vivi dell'uomo.
I due perdono la testa l'uno per l'altra e la relazione scoppia come una scintilla, rende Stella viva e lussureggiante come il giardino davanti casa. E' una calda estate, quella che assiste al risveglio inatteso della donna, e le brevi descrizioni dei frutti e degli ortaggi che vengono continuamente raccolti, sembrano di contorno all'esplosione della femminilità e felicità di Stella. Finalmente conosce cos'è la vera passione; un sentimento da cui non si può scappare e in cui lei vuole solo perdersi, dimentica di tutti i grigi particolari di cui è stata piena la sua esistenza.
Stella è una donna bellissima e il narratore lo ripete in continuazione; si sofferma sullo splendore della sua carnagione chiara, sui capelli corti e biondi, sulla fisicità prorompente. E' una donna che, tramite le parole di Peter Cleave, diventa la rappresentazione dei desideri di qualsiasi uomo. Io noto una certa riduzione della persona ad un oggetto - della donna ad un oggetto sessuale.
Diventa una donna selvaggia, rompendo lo schema in cui si è dovuta rinchiudere consapevolmente.
Suo marito, un uomo la cui ambizione è diretta soltanto verso il lavoro, è completamente diverso da lei, e anche se è in grado di leggere i cambiamenti della moglie basandosi sulla comunicazione non verbale, sui particolari che un esperto della psiche non può ignorare, è completamente incapace di capirla e comprenderla più profondamente. Si ritiene una vittima e si comporta da tale per tutto il romanzo.
Lascia addirittura scappare Stark, per dovere evitare di affrontare la verità di petto. Il problema è che sua moglie si è innamorata di un pazzo, un pazzo che si è infilato persino nella loro camera da letto e che gli ha rubato i vestiti.
Edgar Stark è un'artista, uno scaltro, e fugge dal manicomio con una manciata di banconote e degli abiti con cui può sostituire la divisa gialla.
Durante il parapiglia che ne consegue, Stella è sottoposta ad una pressione non comune. Il sospetto "paterno" del direttore della struttura, la delusione e l'odio del marito incapace di reagire ( un uomo che inconsciamente sa, ma che preferisce tacere ) e l'osservazione di Cleave che è più una rilassata e divertente consapevolezza di ciò che succede. Lui è un altro personaggio che sa, ma che decide di non agire per appagare la propria curiosità accademica. Si muove in punta di piedi tra gli eventi, dispensando qualche consiglio e ascoltando le poche confessioni che vogliono fargli. Il suo atteggiamento è paterno, dimesso, e elegante. Risulterà essere il personaggio più inquietante di tutti.
La psicopatologia di Stella è descritta come un percorso in divenire; si capisce che una parte del romanzo è narrata seguendo ricordi e confessioni che hanno, in seguito, costruito un resoconto. L'ultima parte, solo quella, avviene nel presente.
Stella circondata da questi uomini che trattengono loro stessi dal provare veri sentimenti, e trattengono lei, decide di scappare e raggiungere il suo amante a Londra.
Lo fa, dando un taglio netto alla sua vita di moglie e madre. Si ritrova in una dimensione lontanissima da quella asettica e silenziosa della casa dello psichiatra. Nel sottobosco londinese, periferico, in cui Edgar si è rintanato, regna il caos. I due amanti si avvicinano e si intrecciano, fino a scomparire e ricomparire nel loro nuovo idillio. Per Stella tutto il resto perde di importanza; non gli manca il marito, non pensa al figlio. Vive in un nuovo mondo e questo mondo gli piace; è pieno di artisti, uomini che mischiano pazzia e genialità, e che sono alla costante ricerca del vero.
Anche Edgar, anzi sopratutto lui, è un uomo che ricerca la verità delle cose e lo fa attraverso la scultura. Stella è la sua modella, colei che posa davanti a lui senza veli e si sente totalmente libera e appagata. Il pericolo di vivere con un uomo che ha assassinato sua moglie, e lo ha fatto perché incapace di distinguere la realtà dalla fantasia, non la ossessiona mai. Sembra che queste cose le scorrano via dal corpo, senza lasciare della loro disperazione nemmeno una lacrima.
"Sai che cosa ha fatto alla moglie dopo averla uccisa? L'ha decapitata e poi l'ha enucleata. Sai che vuol dire? Che le ha cavato via gli occhi."
Dice il direttore del manicomio, senza ricavare da lei nemmeno un brivido.
Lei vede il suo amante come una forza della natura; un'uomo così lontano dal marito da risultare una sorta di miracolo.
"Le donne romantiche riescono ad idealizzare tutto."
Questa frase del narratore, che alla prima lettura potrebbe sembrare una giusta spiegazione delle cose, in realtà è anche un tentativo di sminuire la donna e la sua fame di vita. Dopotutto, cosa è peggio tra il fingere di vivere e il vivere brutalmente?
Edgar le offre tutta la vasta gamma dei sentimenti, da cui lei può attingere a piene mani, ma si rende conto, un giorno, di quanto la sua forza sia inarrestabile. Si rende conto che quest'uomo è effettivamente malato e che rimanere con lui significherebbe essere uccisa. Lo lascia, ma con la segreta promessa di ritrovarlo quando la furia omicida gli sarà passata.
E quindi torna nella sua gabbia, assorbita dall'astio silenzioso del marito a cui lei non si piega - ne si piegherà mai.
A questo punto la geografia cambia; marito e moglie, più il figlio, si spostano nel Galles. Il luogo freddo che li accoglie sarà teatro della loro fine.
Lontana da Edgar, Stella viene completamente fagocitata dal nulla. Si, il nulla che le sta attorno e che viene espresso sotto forma di gelide vallate e giornate passate ad aspettare la notte - il sonno. L'unica sua consolazione è, a volte, tenere la cosa in ordine.
La parte più triste ed il degrado maggiore si avverte nel rapporto già corrotto col figlio. Questo bambino che lei ha già abbandonato una volta, viene abbandonato lentamente e corrosivamente durante il soggiorno in Galles. La tristezza di Charlie è così forte che imbeve queste pagine del romanzo, poiché sua madre non nutre alcun interesse per lui. Lo ignora, lo tratta freddamente e lo dimentica. Completamente avvolta da una nebbia di spesso dolore e dal sapore del Gin che non le lascia mai le labbra, Stella continua la guerra fredda col marito e la battaglia con se stessa. Una battaglia senza fine, per uno spirito che sa di non potere più brillare in quella situazione di scontento. E' come se lei fosse caduta nelle sabbia mobili che, man mano, la stanno risucchiando.
Questo lento ma corposo fluire dei fatti dona quella percezione di decadimento che si materializza del tutto, durante un momento particolare.
Assillata dal bambino, le cui carenze affettive sono note a tutti tranne che a lei, Stella decide di partecipare ad una gita scolastica in montagna. Tra le nebbie di quei luoghi, il freddo gelido, e le sue sigarette, osserva come niente fosse suo figlio affogare. E non è nemmeno certa di vedere lui, che si agita, la chiama in cerca d'aiuto, ma forse vede Edgar emergere dai flutti e rischia di annegare.
Rimane gelida a guardare, fumando, fino a che un atterrito insegnante non si lancia in aiuto di Charlie ormai morto.
La decadenza è arrivata al culmine; Stella riceve la visita del "vecchio amico" Peter, il quale la convince della necessità di diventare sua paziente.
Stella diventa paziente dell'ospedale presso cui, un anno prima, aveva presenziato da moglie di medico al ballo a cui partecipano tutti i pazienti e parte del personale. Durante quel ballo, lei stretta in un abito nero, aveva danzato per la prima volta con Edgar, sentendo di poter essere qualcosa di più - una dea, una donna libera chissà.
In questo momento forse si diventa consapevoli del ruolo giocato da Peter Cleave, poiché sono quelli più silenziosi ad essere i viaggi maggiormente strategici. A questo punto, e anche e sopratutto più avanti, ci si rende conto di quanto egli appaia come un teatrante che tiene in mano le sue marionette favorite. Non ha mai dato a Stella un tipo d'aiuto che potesse realmente cambiare la sua situazione, gingillandosi quasi con quella storia davvero piccante e i cui risvolti avrebbero potuto avvicinarsi ad alcuni desideri.
Gioca con lei, in modo sgradevole, le mostra dei ricordi a cui lei non può non fare caso. Le dice che Edgar ( che è stato intanto arrestato ) si trova nello stesso manicomio in cui è lei. Un lampo le illumina gli occhi. Lo psichiatra le dice che è tutto falso.
Quella conversazione cambia le sorti della donna.
A questo punto è lei a tenere tra le mani le redini della sua esistenza, anche se all'interno di una struttura come quella è davvero difficilissimo pensare che sia così. Ma nel suo piccolo, nella sua disperazione, lo fa.
Le mire dello psichiatra vengono rivelate: le accenna che potrebbero sposarsi, in modo da farle trovare protezione e di nuovo, forse, amore.
Il libro è un intreccio molto ben riuscito di vari caratteri, di problematiche che vengono gestite in modo diametralmente diverso. La donna che è percepita come un oggetto o come una selvaggia, diventa una "madonna addolorata" che si aggira tra le mura del braccio femminile e ammalia con la sua copertura mistica tutti gli altri che la vedono. E se invece Stella fosse tante donne insieme? E se il libro fosse anche una sorta di parabola della donna che non può essere, in nessun modo, manovrata da un uomo? Anche se l'uomo è uno psichiatra criminale.
Il romanzo giunge al culmine, e alla fine, con un secondo ballo. E' passato un anno e Stella decide di partecipare, questa volta come paziente, e ormai agli sgoccioli della sua uscita dalle gabbie.
Lo psichiatra assiste alle danze della donna, al suo incedere maestoso con lo stesso abito dell'anno precedente, e si considera orgoglioso della sua scelta. Che coraggio, dice, ha avuto nell'indossare quello stesso abito. Deve averlo fatto per dimostrare a me, a tutti, che è fatta di una pasta forte e che vuole tornare a lottare.
E invece, quando più tardi si rende conto della verità, e che la donna l'ha sempre preso in giro, giungendo ad inventarsi l'elaborazione di un dolore che nemmeno sentiva ( la morte del figlio) pur di farsi credere in via di guarigione, arriva troppo tardi.
E' troppo tardi per tutto, per essere liberi e per vivere.
Non l'aveva fatto per me, dice, ma per lui - Edgar.
Edgar, con cui lo psichiatra gioca allo stesso modo, anche a carte scoperte, e che nelle ultime righe si capisce non avrà nessuna possibilità di guarire visto che è solo un feticcio tra le mani di un altro pazzo che però è libero.
E quindi è normale chiedersi: chi sono i veri folli? Quelli che si abbandonano ai sensi, alla ricerca di una verità d'espressione tutta loro, oppure quelli che professano una stabilità granitica e falsa?
Busy bee
sabato 2 gennaio 2016
I Buddenbrook; T. Mann
I Buddenbrook
Titolo originale: Buddenbrooks
Autore: Thomas Mann
Editore: Garzanti Libri
Prezzo: /
Photo by Busy Bee ©
Attraverso le vicende di quattro generazioni, l'ascesa e il declino di una famiglia borghese di Lubecca, nel romanzo più famoso del grande narratore tedesco.
Ho letto I Viceré e da allora non ho mai smesso di provare interesse per le grandi saghe familiari. Mi piacciono le storie che danno modo di affezionarsi non solo ai personaggi, ma a delle famiglie, e in cui si viene risucchiati quasi inconsapevolmente. Si finisce per prendere le parti di qualcuno piuttosto che di un altro, sperare che la fortuna giochi a favore del proprio beniamino e che il declino sia lontano. Se siete amanti di saghe familiari e sad books, allora mettetevi comodi e godetevi il viaggio.
Pensavo che di Thomas Mann, avrei letto prima La montagna incantata, libro a cui penso qualche volta, ma le storie vengono a noi seguendo non sempre un disegno logico. Questa volta ho seguito un consiglio e mi rendo conto di avere fatto benissimo.
Ho iniziato a leggere I Buddenbrook in contemporanea a Moby Dick: due classici in una sola volta, si direbbe, ma io sono poligama e ho bisogno di variare. La cosa bella di leggere più di un libro alla volta è che si rimane avvolti da una storia, non appena finisce l'altra, e che la solitudine post lettura dura di meno.
Alla letteratura tedesca, ho sempre preferito quella inglese, e più recentemente quella americana, quindi entrare a contatto con la società descritta nel libro non è stato difficile ma come respirare un'aria del tutto nuova.
Il libro si compone di undici parti e comincia con una scena simbolica: l'inaugurazione della splendida casa nella Mengstrasse.
La grande casa padronale è una dei protagonisti del romanzo, con la sua imponenza, la stanza dei dipinti, il sigillo posto sopra il portone d'entrata.
La famiglia Buddenbrook è, all'inizio del romanzo, nel pieno della crescita e dell'espansione. Ciò riguarda sia lo sviluppo familiare che quello della ditta Johann Buddenbrook. L'atmosfera festosa, di raccoglimento, coinvolge il lettore. Ci sono gli anziani nonni, pronti a lasciarsi coinvolgere dalla giocosità dei nipotini, coloro che domineranno il romanzo - Thomas, Christian e Tony - e gli adulti, Johann e la moglie Elizabeth nata Kroger.
L'opulenza della tavola dei Buddenbrook, in questa prima occasione che accoglie il lettore, ma poi spessissimo all'interno del romanzo, è chiave di un altro dei temi centrali - la borghesia.
Si sa che, nel romanzo di Mann, il mangiare bene e abbondantemente, è simbolo dello stare bene economicamente e della continua crescita sociale. I pasti sono descritti nel dettaglio, così come le portate, e sembra proprio che l'autore abbia chiesto, mentre scriveva la storia, di poter ricevere una grossa quantità di dettagli riguardo la cucina alla propria famiglia. La ricchezza di queste descrizioni, la spontaneità con cui sono tratteggiate un sacco di situazioni famigliari, in tutte le sfumature, fa credere che Mann abbia inserito nel suo romanzo della particolarità estrapolate dalla propria vita.
E così che si leggono aneddoti dipinti con estrema vivacità: la Tony che va in giro per la città, sentendosi regina, sottomettendo chiunque incontra ai propri scherzi, che litiga con i figli dei vicini e ne diventa nemica giurata; la compostezza di Thomas, l'indole scherzosa di Christian e la sua ipocondria.
Si, perché I Buddenbrook, romanzo corale, romanzo di una vita, è attraversato da un'altra tematica fondamentale: la malattia. Ma non è malattia qualunque, si tratta di sofferenza legata a doppio filo con l'esistenza che si conduce. Ricorrono i disturbi di digestione, legati a quegli abbondanti pranzi che si susseguono nella Mengstrasse. Anche chi muore viene solennemente accudito con brodi di carne, fino all'ultimo, poiché sembra che riempire sia molto meglio che lasciare vacante.
Più o meno tutti quanti i membri della famiglia hanno problemi legati al cibo; tutti tranne la "magra, sempre affamata e paziente Klothilde" parente povera. Che ironia. Ella ha il problema opposto: sembra che niente possa lenire quella fame atavica che ha. Lasciata agli scherzi dei suoi ricchi parenti, li sopporta con una sorta di stoica calma.
I disturbi alimentari dei Buddenbrook vengono curati dalle parole del medico Grabow, bonario e, come sembrerà, immortale. Piccione e pane bianco.
La figura del medico in questo romanzo è davvero indimenticabile. I Buddenbrook è inevitabilmente un romanzo pieno di morti, malattie e sofferenze, ma è impossibile non notare che il medico, pur essendo fedele e presente al capezzale del malato, non è mai in grado di cambiare la situazione. I rimedi medici non alterano quello che sembra essere il destino dei malati, seppure questi si pieghino con innocente fiducia alla speranza. Grabow stesso, lo pensa, che sarebbe quasi una sorta di interferenza vietare che quelle persone si comportassero come loro solito. E' più un testimone del decorso e della decadenza, più che un attore.
Come testimoni sono le folle che circondano la casa; gli amici, i colleghi, e ovviamente il narratore della storia.
La scrittura di Thomas Mann è meravigliosa. D'altronde, come si può non apprezzare un premio Nobel? Ho trovato questo libro di una ricchezza impressionante, e insieme di grande scioltezza.
I significati politici sono nascosti nelle pieghe degli eventi, in piccoli accadimenti che coinvolgono questo o quello ma che sono estremamente significativi. Tutto viene ben congegnato e segue una sorta di disegno, così che quando si sfoglia l'ultima pagina del romanzo ci si rende conto di avere guardato nella stessa direzione tutto il tempo. Si capisce che - Non poteva che andare così.
Quando Tony, ancora fanciulla, va a passare le sue vacanze al mare presso amici di famiglia, ecco che fa un incontro fondamentale per la sua esistenza - l'uomo che ama, ma che non sposerà mai, e che è un rivoluzionario con delle idee opposte alle sue.
Era inevitabile che Tony si trovasse spesso con le sue conoscenze di città sulla spiaggia o nel giardino del Kurhaus, che fosse invitata a questa o quella festa o a una gita in barca.
Allora Morten 'sedeva sulle pietre'.
Quelle pietre, fin dal primo giorno, erano divenute fra loro due un modo di dire fisso.
"Sedere sulle pietre" voleva dire "essere soli e annoiarsi".
Quando arrivava uno di quei giorni di pioggia che avvolgevano tutto il mare in un velo grigio, unendo con il cielo basso, e inzuppavano la sabbia sulla spiaggia e bagnavano le strade, Tony diceva: "Oggi dobbiamo sedere tutti e due sulle pietre... Cioè sulla veranda o nel soggiorno. Non le resta altro che cantarmi le sue canzoni studentesche, Morten, sebbene mi annoino terribilmente."
"Si," diceva Morten "sediamoci... Ma vede: quando c'è anche lei, non sono più pietre!"
Tony Buddenbrook è stata forse il mio personaggio preferito, la cui crescita viene descritta con maestria innata.
"Adesso non sono più un oca."
Ripete spesso, ogni volta che vuole incoraggiare gli altri a trattarla come una adulta, o farsi coraggio per affrontare le avversità. Tony ha una delicatezza tuta sua, ed un lato infantile che riesce a tenerla al riparo dalle spiacevolezze che le capitano. Nell'immaginario del lettore è vivido il suo bel volto chiaro e quel labbro superiore un po' sporgente.
Devo ammettere di avere sperato che, dopo le sue disavventure matrimoniali, incontrasse ancora il mai dimenticato Morten. Ma I Buddenbrook non è quel tipo di romanzo: non contiene speranza di felicità a lungo termine. Si percepisce, anzi, pagina dopo pagina, che la sfortuna è dietro l'angolo, e il talento di Mann si lega allo spirito del lettore così che è facilissimo, immediato, immaginare cosa accadrà. Si percepisce "l'odore" della sventura, per così dire.
Sua caratteristica fondamentale, tragicomica, è quella di volere che tutto sia distinto nella sua vita. L'orgoglio che prova nei confronti dell'importanza della famiglia la spinge a prendere decisioni sofferte, che mettono la sua persona in secondo piano rispetto al resto. Eppure, nonostante questo personaggio abbia in se i tratti della commedia e della tragedia, penso che sia il meglio riuscito. Riusciamo a seguire quasi tutta la sua vita, la sua evoluzione, e la lasciamo viva seppure quasi completamente alla deriva.
Indimenticabili, che spingono alla riflessione e al sorriso, sono i suoi discorsi al fratello Thomas, o alla madre. Fa inevitabilmente tenerezza.
Man mano che la narrazione prosegue, e sopratutto le generazioni cedono il posto alle altre, l'attenzione per il consumo dei banchetti, quell'atmosfera gaia, perde il ruolo centrale. Forse perché, non appena è Thomas a prendere il posto del padre negli affari, la figura del capofamiglia subisce una rivoluzione. Thomas non è come i suoi predecessori, mira più in alto, è più ambizioso e la scelta della consorte ( Gerda ) è per lui una sorta di passo in avanti. Gerda non è solo ricchissima, ma diversa dalle altre donne che popolano queste pagine. Ha grande amore e talento per la musica, suona il violino, e perciò viene vista da Thomas quasi come un gioiello che potrebbe abbellire la copertina già scintillante del libro di famiglia. Eppure la scelta della consorte non è che una delle avvisaglie: Thomas è destinato a fallire, e non solo economicamente, ma spiritualmente.
Nel suo stesso odio nei confronti dello sfaticato e malato cronico fratello Christian, ho letto i sintomi di una malattia che si sarebbe presto palesata è arrivata; la stessa malattia che lo spinge ad accettare un affare non troppo onesto, e che gli impedisce di amare suo figlio Johann - Hanno - del tutto.
Come l'azione del mangiare rappresenta una ben più ampia attività commerciale e vitale, allora perdere i denti, o far ricorso al dentista, non è che una oscura profezia.
Dopo alcuni anni di matrimonio, nasce il piccolo Johann ( chiamato poi Hanno affettuosamente ) e questo continuo ripetere dell'autore il piccolo Hanno, il piccolo Johann alla fine sembra una premonizione, come se si parlasse di uno destinato a rimanere piccolo per sempre. L'erede è salutato con una grande festa, ma agli occhi del lettore, quando gli anni passano, si palesa la crescente insoddisfazione di Thomas nei confronti del figlio. Questo bambino così delicato, la cui infanzia è costellata da incubi, e il cui carattere delicato non regge nemmeno l'esposizione di una poesia, è predestinato. Dopotutto, la mancanza di fiducia di una padre nei confronti di un figlio non è una sorta di maledizione? Thomas non fa che guardarlo con delusione, non fa che riprenderlo, attaccarlo, e sottoporlo alla tortura del dentista. Il fatto dell'estrazione dei denti, in continuazione, su un bambino così piccolo, e fragile, fa venire in mente un'idea che poi sarà lo stesso Hanno a sottolineare in seguito. Senza denti come si fa a masticare? Se i denti non sono buoni, allora questa vita fatta di forti appetiti non può essere affrontata.
"Non riesco a volere." dice Hanno a Kai - il suo unico amico - "Come farò a 30 o 40 anni, se adesso ho tutti i denti rovinati?"
Hanno cresce in una sorta di isolamento auto indotto e spezzato solo dalla presenza del piccolo conte Kai. Questi è l'unico che costituisce per lui un motivo di gioia, di compagnia, insieme alla musica - passione che la madre gli ha passato quasi per osmosi.
Devo ammettere di essere rimasta più colpita da questa parte del romanzo piuttosto che dal resto: queste pagine così vicine all'anima sensibile del ragazzo sono di una bellezza piena di delicatezza, di paura, e di una strana e brutale consapevolezza. Lui ha la consapevolezza di non essere adatto a questo mondo, cosa che il suo defunto padre, più che aver capito, ha presagito.
La fine di Thomas Buddenbrook è la più umiliante dell'intero romanzo, eppure su di me non ha avuto effetto di commozione, probabilmente perché considero questo personaggio il peggiore. La sua storia è costruita benissimo, tutti i fili vengono tirati, e spesso ho avuto la sensazione di assistere ad una sorta di teatrino dei pupazzi. Thomas rimane avvinghiato ai troppi fili che lui stesso ha messo in gioco, da cui non sa uscire, e che un giorno ha deciso di non sciogliere più.
E' iniziato come sensazione, questo pensiero che della fine - del declino - e si è tramutato in certezza. I suoi denti iniziano a marcire e anche lui deve farseli tirare. Quant'è spaventosa questa metafora dei denti che vanno tirati! E' una delle cose più brutali e tristi dell'intero romanzo.
E' iniziato come sensazione, questo pensiero che della fine - del declino - e si è tramutato in certezza. I suoi denti iniziano a marcire e anche lui deve farseli tirare. Quant'è spaventosa questa metafora dei denti che vanno tirati! E' una delle cose più brutali e tristi dell'intero romanzo.
Di ritorno a casa, cade in una pozzanghera, e li viene raccolto quest'uomo che s'è sempre preso cura di se stesso e che non ha mai avuto i baffi fuori posto.
La descrizione della morte, questo grande avvenimento sociale in cui gli estranei hanno parte integrante, è sempre trattata con accuratezza tale da legarsi benissimo alle peculiarità dei personaggi.
Se la morte del, nobile vecchio padre di Elizabeth Buddenbrook - nata Kroger - avviene in carrozza, d'improvviso, ammantata dall'orrore del vecchio che lascia spazio al nuovo, dopo una seduta parlamentare, quella di suo genere Johann è prematura e veloce. La morte della madre di Tony, Thomas e Christian è descritta nei particolari, tratteggiata così che il lettore immagini passo dopo passo il corpo rovinato dalle febbri, e la tenacia con cui la donna cerca di attaccarsi alla vita, poi finalmente il trapasso. Si tratta di descrizioni davvero crude, che colpiscono al cuore; peggiori risultano però, perché ammantate di quel misticismo che permane, le narrazioni riguardanti l'esposizione del cadavere.
Così guardiamo insicuri, silenziosi e disgustati, il corpo di quella che era stata Elizabeth Buddenbrook, esattamente come fa Hanno; quella non è la nonna, c'è rimasto solo un involucro, una maschera, e nulla di più!
Così guardiamo insicuri, silenziosi e disgustati, il corpo di quella che era stata Elizabeth Buddenbrook, esattamente come fa Hanno; quella non è la nonna, c'è rimasto solo un involucro, una maschera, e nulla di più!
E infine lui, l'ultimo Buddenbrook a cui nessuno ha dato troppa fiducia ( tranne la zia Tony, irreparabilmente ottimista e affettuosa ) va via in modo silenzioso.
Prima di farci capire che è morto, Mann si lancia nella descrizione di una sua giornata scolastica, ci fa sentire perfettamente il terrore che ogni scolaro assapora quando non ha studiato per le lezioni. L'atmosfera cupa, lontana, che avvolge quel ragazzino troppo delicato e straordinario, ci stringe fino a togliere il respiro.
Segue la descrizione di come il tifo uccide le proprie vittime, e siamo alla fine del romanzo.
"Ormai il piccolo Johann Buddenbrook riposava da sei mesi..."
Ecco, è tutto finito. Gerda ha deciso di tornare ad Amburgo dal padre, per potere ancora suonare con lui, come chiudendo una parentesi della sua vita che si è protratta per vent'anni, e Tony non trova alcun motivo per non essere d'accordo.
Il sapore in bocca è amaro, ma d'altronde il sottotitolo del romanzo è: Decadenza di una famiglia.
Il romanzo si chiude con le donne rimaste: c'è Tony, Gerda, le parenti nubili, quelle che furono sempre pronte a rallegrarsi delle sfortune dei protagonisti, Klothilde, magra e paziente, ma non più povera di loro ormai, e poi Sesemi, la vecchia e piccola insegnante di Tony. E' sopravvissuta a tutti quanti e, battagliera, si alza in piedi ed esclama che, si un giorno si rivedranno tutti quanti, senza lasciare alle altre modo di ribattere. Magra, magrissima consolazione.
Busy Bee
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