« Le piaceva passeggiare per strada con dei libri sotto il braccio.
Essi rappresentavano per lei ciò che il bastone da passeggio rappresentava per un dandy del secolo scorso.
La distinguevano dagli altri. »
domenica 27 dicembre 2015
Moby Dick; Melville
Moby Dick
Titolo originale: Moby Dick
Autore: Herman Melville
Editore: Garzanti
Prezzo: 10, 50
Photo by Busy Bee ©
"Capolavoro di Melville, Moby Dick (1851) è insieme un appassionante romanzo d'avventura e una potente allegoria del conflitto primordiale tra l'uomo e le forze misteriose della natura, una tragica epopea piena di sangue e di morte e una profonda metafora dell'umano destino, della disperante ambiguità del vivere in cui l'uomo si dibatte senza possibilità di scelte definitive. Il mare, omerico e biblico al tempo stesso, è il regno dei mostri, del terrore, delle immense profondità che sfuggono alla comprensione umana. La balena bianca contro la quale lotta ostinatamente e inutilmente Achab è un'incarnazione del mitico Leviatano, un abbagliante simbolo dell'assurdità del mondo. L'eroico capitano è un Faust orgoglioso e dolente che vuole distruggere nell'odiato animale il male stesso. Il viaggio del Pequod a caccia del mostruoso cetaceo evoca un'umanità alla ricerca di senso in un'affannosa esplorazione che tuttavia conduce solo a riconoscere l'ineffabilità dell'essere."
Ho deciso che avevo bisogno di un'avventura e così ho preso questo libro, sottraendolo allo scaffale, e mi sono imbarcata sul Pequod. Sapevo sin dall'inizio che non sarebbe stato facile, che forse avrei impiegato del tempo per immergermi a dovere in questa storia, ma non immaginavo una navigata così vorticosa.
La passione per i libri supera qualsiasi altra mia aspirazione; la passione per la letteratura straniera è al culmine in questo periodo. Devo assolutamente - è una decisione che ho preso in mattinata - leggere tutti i classici il 2016, e darò rilievo e importanza ai libri come Moby Dick.
Penso che il libro di Melville sia, come alcuni altri, radicato non solo nell'immaginario comune ma proprio nell'inconscio della gente. Anche coloro che, per varie ragioni, non solo non lo hanno letto ma riducono le letture in generale a poco più che un rara casualità, associano parole come avventura balene e capitani a Moby Dick.
Io non solo ho bisogno di avventura, ma anche di interrogarmi profondamente riguardo me stessa; ho bisogno di scoprirmi, di capire cosa ho dentro, e questo libro l'ho letto nel momento giusto della mia vita.
Ma andiamo per gradi.
Le linee generali della storia le conosciamo tutti quanti, per quei motivi che posso riassumere in una sola frase: Moby Dick è un capolavoro della letteratura.
"Chiamatemi Ismaele."
Chiunque abbia già letto il libro, probabilmente avvertirà brividi insorgere sulla pelle nel leggere le prime due parole che compongono il romanzo.
Ma come mai Melville ha scelto proprio questo nome?
Ismaele è, nella Genesi, figlio del patriarca Abramo e della schiava Agar. Questo figlio, insieme a sua madre, viene allontanato da Abramo nel tentativo di ovviare alla crescente gelosia di sua moglie Sara. Ecco quindi che Ismaele è un personaggio abbandonato all'incertezza, alle spire di un destino difficile.
Anche il nostro Ismaele è così - un uomo che viene risucchiato da eventi più grandi di lui, avvolto nel viaggio burrascoso a cui si è affidato.
Ci sono storie e storie, ed io ne ho lette abbastanza da sapere discernere tra di esse. Ci sono racconti che ti accompagnano per un po', accarezzando lo spirito del lettore, assecondando la gioia o ispirando riflessioni. Questo romanzo è un'esperienza. E' una vita in cui immergersi. La cosa che più mi stupisce, quando mi ritrovo davanti alla letteratura importante, è la capacità dello scrittore di descrivere alla perfezione le sfumature della vita, della quotidianità, dei moti dell'anima. Così è Melville e non solo. Ho potuto quasi intravedere, in queste molte pagine, l'espressione disperatamente ossessionata di quest'uomo mentre scriveva.
Tutti gli scrittori sono ossessionati dalla loro storia, dal bisogno - che è simile ad una febbre - di buttare giù se stessi, il mondo, sopra pagine vuote. Si avverte, questo voglio dire, il disperato bisogno di raccontare che Melville deve avere avuto; forse questo si intreccia sapientemente al bisogno del personaggio stesso. Eppure è così interessante, piacevolmente difficile, cercare di sfiorare un animo così incredibile come quello di uno scrittore di tali altezze.
"Nantucket! Prendete la carta geografica e cercatela. Osservate come se ne sta in un vero e proprio angolino del mondo."
Questa città, descritta come un luogo abitato da uomini prescelti, si trova nello stato del Massachusetts - su di un'isola. Melville ce la fa immaginare e sognare: è patria dei migliori balenieri del mondo. Ricorre il paragone tra i balenieri inglesi e quelli Nantuckettesi; facile è iniziare a divagare, accompagnati dai lunghi monologhi di Ismaele, riguardo ad un mondo che ormai non esiste più.
Nantucket esiste oggi, non è stata divorata dall'acqua come nelle leggende lo fu Atlantide, ma ecco che arrivo al punto. E' quel mondo che ormai non esiste più, che è bello immaginare. L'ambientazione del libro, in termini cronologici, è fermata al lontano 1850. Un tempo che a noi sembra antico, e che infatti non potrebbe realizzarsi più se non nella nostra immaginazione più esasperata. Si tratta di anni in cui l'importanza della sopravvivenza di un uomo superava la sua predisposizione alla crudeltà. Le balene venivano cacciate per ottenere un materiale molto prezioso ( lo spermaceti - olio ) per l'illuminazione, quindi siamo molto lontani dai recenti cacciatori di balene.
Come sarebbe bello, pensavo, potersi imbarcare da New Bedford e raggiungere Nantucket per iniziare un'avventura. Oggi non c'è avventura che il denaro non possa comprare, mi è stato detto qualche giorno fa, ma io non sono d'accordo. Alcuni universi sono stati seppelliti per sempre dalla modernità e non torneranno più. Se questo sia un bene o un male, ci vuole tempo per giudicarlo.
Dicevo che quel mondo è scomparso, e che mondo! Il lettore si abbevera di descrizioni cittadine, umane, che lo lasciano immergere in realtà incredibili. A Nantucket è facile incontrare l'uomo di chiesa, un tempo anche lui uomo di mare, e il selvaggio cannibale giunto da isole che si trovano dall'altra parte del mondo.
E infatti, Ismaele incontra Queequeg, che diventerà suo compagno e amico.
Ho trovato commovente questa amicizia; penso che le amicizie migliori partano dal presupposto di non giudicare mai quello che è l'origine di un uomo, ma nell'accettazione dell'essere nella sua totalità. E così Ismaele prega insieme a Queequeg davanti al piccolo idolo Yojo, certo di fare del bene. A questo proposito, Melville scrive una riflessione alquanto moderna sulla religione.
"Ora, come ho già asserito, non ho niente da dire contro la religione di nessuno, qualunque sia, fintanto che questa persona non si metta ad ammazzare ed insultare nessun altro perché quest'altro individuo non ci crede pure lui. Ma quando la religione di un uomo diventa pazzia autentica, quando si trasforma in vera e propria tortura, e insomma rende questa terra nostra una scomodissima locanda, allora mi pare proprio il momento di pigliare a parte quell'individuo e farsi una piccola discussione."
Quanto è attuale questo pensiero? Sopratutto ora che la follia e il fanatismo religioso sembrano filare sulla nostra terra. E sorge spontaneo chiedersi cosa ne penserebbe questo Melville che aveva tale chiarezza di pensiero, a riguardo.
Ismaele e Queequeg si imbarcano sul Pequod; nave che parte sotto i tetri presagi di Elia (Sempre nomi biblici) uomo giudicato "pazzo" e ignorato.
Io non stavo nella pelle che cominciasse questo viaggio, che si imbarcassero e le mirabolanti avventure giungessero presto. Durante tutta la mia vita ho sentito persone catalogare Moby Dick come un romanzo d'avventura per ragazzi, ma non lo è affatto! Non è assolutamente un libro per bambini e non è assolutamente - non solo - un libro d'avventura.
Il tema principale di questo romanzo è l'ossessione, la disperata lotta dell'uomo che cerca di trovare, sopraffare, le sue più profonde paure. D'altronde il mare è simbolo dell'infinito per eccellenza; il mistero di questo elemento esercita da sempre sull'animo umano ammirazione e terrore.
La balena, che il lettore si aspetta spunti improvvisamente dalle pagine del libro, si farà attendere, ma allo stesso tempo è sempre presente.
I protagonisti di questo romanzo sono diversi, ma tra i principali vi è Achab, il capitano, che incarna tutta la sofferenza dell'uomo in generale. L'uomo, come creatura, alla mercé di questo vasto mondo, dell'oceano, delle forze primigenie e immortali che lo rendono fragile e debole.
Il capitano Achab, come tutti i personaggi folli e sofferenti, esercita una enorme fascinazione e presa sul lettore. Quando entra in scena, con quel rumore che la sua gamba di legno produce sul cassero, non si può che assumere ancora più attenzione cercando di cogliere qualche dettaglio in più e qualche briciola che spieghi, riveli, sfumature della sua anima. Melville è maestro nello spiegare, lasciando intravedere piano, la storia dei suoi personaggi.
Il romanzo ha una struttura complessa ed è costituito da momenti d'azione, in cui tutta la gloria della nave che avanza sull'oceano può essere respirata, che s'alternano a lunghe descrizione dettagliate riguardo la fisionomia, la storia, persino la simbologia del grande leviatano. Ognuno di questi monologhi però, viaggia non a vuoto - ha sempre un significato più profondo nascosto all'interno e che viene svelato sempre alla fine, quando il capitolo successivo è ormai bene in vista.
Ovviamente, come probabilmente lo stesso autore, Ismaele è così ossessionato dalle balene da volerle studiare affondo e volere elaborare una sorta di trattato che illumini i futuri studi dei posteri. E così che fa un viaggio a ritroso nel tempo, raccontando anche di studiosi e delle loro opere più o meno buone, citando pittori e dando la possibilità al lettore di toccare con mano la veridicità di quello che sta raccontando. ( Molto spesso ammette di volere fornire delle prove, di volere convincere il lettore "sprovveduto" perché manchevole di esperienza di balene, in modo che possa credere a queste storie.)
I viaggi all'interno del romanzo sono tanti, polivalenti, ed è presente una magnifica coralità di voci.
Non c'è solo la costante, profonda riflessione, di Ismaele, ma a lui spesso si sovrappongono quelle degli altri. I monologhi interiori di Achab, che danno l'impressione di essere sempre dei sussurri che accompagnano il vento, sono assolutamente indimenticabili.
La storia è risaputa: Moby Dick, questa balena descritta come un mostro, un demone capace di vendetta e atti efferatissimi, gli ha strappato una gamba tempo prima, e da allora il Capitano Achab non ha che in mente un solo pensiero - ucciderla.
Ma cosa è Moby Dick se non l'altro, il terribile e l'inafferrabile, il destino? E uccidendo la balena, se mai dovessimo riuscirsi, non uccidiamo anche noi stessi?
E' come se, leggendo, potessimo insinuarci nella vita, nella storia, dei vari attori che si muovono sulla scena. E se il Capitano Achab è mosso da un solo scopo, di cui parla nel sonno, per cui incita la ciurma appendendo un doblone all'albero di maestra, gli altri uomini rappresentano i vari gradi di facoltà umana di adeguarsi alla vita che prende decisioni per loro. Il primo ufficiale Starbuck, uomo onesto e consapevole, è quasi l'altra faccia della medaglia - è, può immaginare il lettore, come sarebbe stato Achab se non fosse finito in quella spirale di malattia che lo divora vivo, giorno dopo giorno, onda dopo onda. Starbuck è l'unico che, durante il giuramento a cui Achab sottopone i marinai, si riserva di non rispondere subito con un - SI. Davanti alla continua battaglia del Capitano, egli retrocede; percepisce benissimo la vitalità mostruosa di quel "vecchio" che si scontra contro la sua stessa mortalità.
Mentre tutto l'equipaggio è esaltato, travolto dalle risate e dal carisma di quell'uomo che ha promesso loro sangue, il primo ufficiale è profeticamente triste. Ma non può tirarsi indietro, nessuno può: è la vita.
Il patto è questo: chi avvisterà per primo la balena bianca avrà quel doblone. Pian piano la follia si propaga, fino ad entrare nel sangue di tutti coloro che sono nella nave. La nave stessa, se vogliamo, è una allegoria; Achab stesso sembra una sorta di spirito senza requie che possiede la nave. Egli si stende sul pavimento, ascolta i rumori dell'oceano, è capace di sentire nell'aria gelida della notte, in quella odorosa del giorno, la presenza delle balene.
"Vendetta su un bruto senz'anima!" esclamò Starbuck. "Su un bruto che ti colpì solo per il più cieco istinto! Ma è una pazzia! Capitano Achab, suona blasfemo odiare una creatura incosciente."
[...] "Se l'uomo vuole colpire, deve colpire la maschera! Come può evadere il carcerato se non forza il muro? Per me la balena bianca è quel muro. Me l'hanno spinto accanto. Qualche volta penso che li dietro non c'è niente. Ma è sempre abbastanza. Mi chiama alla prova. Mi opprime. In essa vedo una forza che è un oltraggio, con una malizia inscrutabile che l'innerva. Quella cosa incomprensibile è sopratutto ciò che odio.
Forse la balena bianca è il mandatario, e forse è il mandante, ma io gli rovescerò addosso questo mio odio."
I dialoghi tra il Capitano e il suo primo ufficiale sono i più belli del libro. In essi è tangibile lo scontro fra due identità opposte, ma complementari. La drammaticità dei tentativi di Starbuck di riportare l'uomo Achab alla ragione è palpabile, commovente.
Gli altri personaggi, come il secondo ufficiale Stubb e il terzo Flask sono caratterizzati alla perfezione e, come ho già detto, rappresentano dei tipi d'uomo specifici. Achab stesso dice di Stubb che è "coraggioso in modo meccanico" mentre, seppure vada contro a Starbuck, riconosce in lui un uomo onesto, di valore, di cui si fida.
E' possibile rivedersi in tutti i personaggi.
Non sono solo membri dell'equipaggio del Pequod, ma uomini che vanno incontro alle difficoltà della vita, allo strazio di doversi consumare e comunque non avere niente in cambio. Questo pensiero è perfettamente espresso da uno dei monologhi del Capitano. Sono stato in mare per quarant'anni, dice, e soltanto tre sulla terra, e cosa ci ho guadagnato? Questi capelli bianchi?
Non immaginereste mai quanto è difficile la vita di un baleniere e Ismaele si premura di rendere quanto più trasparente la situazione. Narrazioni meravigliose, lunghe e particolareggiate da dettagli tecnici illustrano le modalità di squartamento della balena, gli attrezzi utilizzati per darle la caccia, e l'importanza del mestiere di ramponiere.
Queequeg, di cui si è già detto, e che è uno dei miei personaggi preferiti, diventa ramponiere per la sua estrema abilità nel lancio del rampone. Per lui ci sarà la novantesima, in termini di guadagno, mentre il suo amico Ismaele viene lasciato molto indietro in termini di importanza.
Le figure degli altri due ramponieri, Tashtego e Daggoo, sono vivide e ammantate di quello splendore esotico che continua dall'inizio alla fine. Vengono ritratti come giganti che si ergono sulla chiglia della nave, luccicanti di spuma marina, coraggiosi come leoni e capaci di porre un fermo alla morte.
"Presto si vide che la cassetta del carpentiere non serviva più: e a quel proposito quando qualcuno espresse la sua lieta sorpresa, Queequeg rispose in sostanza che la ragione della sua convalescenza era questa: al momento critico, si era appunto ricordato di un piccolo dovere a terra che che stava per lasciare incompiuto, e perciò aveva cambiato idea quanto a morire: ancora, dichiarò, non poteva morire. Allora gli chiesero se vivere o morire dipendesse dal suo sovrano volere e piacere. Certamente, rispose. In una parola, l'idea di Queequeg era che se un uomo si metteva in testa di vivere, una semplice malattia non lo poteva uccidere."
Io ho trovato questa saggezza di Queequeg meravigliosa. Lo spirito di un uomo può essere così forte da decidere per se stesso, senza lasciarsi influenzare. E' davvero incredibile come questo "selvaggio" sia libero quanto Achab è prigioniero.
Vivere in mare, viene ripetuto, è pura libertà; in mare non esistono distinzioni sociali, si è tutti marinai sotto la supremazia di un Capitano. Si è tutti uomini. Gli uomini sono manovrati dal caso, da una sorta di forza che Achab sente pesare, scendere dal cielo, avvolgere e schiacciare le membra a volte. Una forza a cui, dice, si piegherebbe se solo fosse benigna, ma che continuerà a combattere con ogni goccia del suo sangue.
Ma ritornando alla caccia. Achab dice che un Capitano di una baleniera deve dare agli uomini ciò che si aspettano: ebbene veleggiare senza raccogliere nemmeno un barile d'olio sarebbe stato impensabile. Quindi ci sono delle scene di caccia, alcune più cruente delle altre. In una di esse, Stubb colpisce una vecchia balena malata, proprio nel punto in cui una terribile ferita la faceva soffrire. Il sangue ricopre gli occhi di chi guarda, e di chi legge, e invariabilmente si è tristi. E' ovvio, oggi dopo tante violenze, ne siamo talmente saturi da aborrire queste pratiche. Anche l'uccisione di un animale, può essere fatta con una certa dignità, ed è quello che pensa Starbuck che non fa in tempo a fermare la mano del secondo ufficiale.
Melville descrive tutto, ci fa sentire la fatica, vedere il sudore di chi trasporta la balena, e i rumori delle code degli squali che durante la notte fanno festa al cadavere dell'enorme pesce ancorato al Pequod. Le bocche degli squali, così bramose, non si discostano poi tanto dalla fame di certi uomini.
"La vostra fame lupigna, fratelli, non ve la rimprovero certo: è la natura, e natura non si cambia; ma un po' di freno a questa natura diabolica, è questo che dico. Pescicani siete, non c'è dubbio. Ma se al pescecane di dentro ci mettete una cavezza, perdio allora siete angeli; perché un angelo non è altro che un pescecane ben controllato."
Tutto il romanzo è come ammantato da questa fame inesauribile: fame di ricerca, di vendetta, di tutto. Ci si ritrova a sperare che Achab riesca ad uccidere Moby Dick, ad un certo punto, tale è la sua sofferenza. Un dolore che entra anche dentro di noi, che si trascina da un incubo ad un altro, e che fa urlare, imprecare, rivolgersi al cielo e all'oceano all'unisono.
La folle determinazione del Capitano viene svelata nel corso del romanzo, con altrettanta determinazione da parte dell'autore. Il Pequod incontra innumerevoli navi, durante il suo giro del mondo, e Achab, come se ogni uomo che incontrasse diventasse sempre più alieno, risponde irreparabilmente sempre "Avete visto la balena bianca?"
Le navi baleniere, racconta Melville, hanno una peculiarità quando si incontrano che è quella del Gam. Una sorta di saluto che include la visita dell'altra nave, da parte di uno dei Capitani, e il raggiungimento dell'altra da parte degli ufficiali. Achab elude queste consuetudini, limitandosi alla propria corsa verso il nulla. E' proprio quando il Pequod incontra la Rachele, che il lettore, se non l'avesse fatto fino ad ora, si rende conto dei sentimenti di Achab nei confronti del mondo.
"Non me ne vado." disse lo straniero. "Finché non mi dite di si. Fate a me ciò che vorreste che io facessi a voi in un caso simile, perché anche voi avete un figlio Capitano Achab... per quanto ancora bambino e sicuro nel nido, a casa... un figlio anche della vostra vecchiaia... si si ora vi commuovete, lo vedo... svelti, ragazzi, pronti a bracciate in croce!"
"Fermi!" urlò Achab. "Non toccate niente." poi con una voce che plasmava lenta ogni parola: "Capitano Gardiner, non posso. Anche ora sto perdendo tempo. Addio. Il signore ti protegga amico, e possa io perdonare me stesso."
Lo scontro con Moby Dick, quello fisico almeno, poiché in realtà tutto il libro è uno scontro con l'assoluto, il non conosciuto e l'irreale, è riservato alle ultimissime pagine del romanzo. Gli ultimi tre capitoli, sono quelli decisivi, e che risucchiano il lettore e l'equipaggio letteralmente nel vortice dell'oceano.
Mi è rimasto impresso l'ultimo ( o uno degli ultimi ) dialogo del Capitano con Starbuck. "Capitano, mio Capitano, torniamo indietro." dice, non appena uno spiraglio di emozione, razionalità, si presenta tra le pieghe dell'animo martoriato di Achab.
"No, no, niente acqua per questo; lo voglio temprato proprio nella morte. Oè, là! Tashtego, Queequeg, Daggoo! Sentite, pagani, volete darmi un po' di sangue per coprire questa punta?" Un gruppo di tetri cenni rispose: "Si." Si fecero tre punture nella carne pagana, e poi si temprarono le punte della balena bianca. "Ego non baptizo te in nomine patris, sed in nomine diavoli!" Urlò Achab smaniando, mentre il maligno ferro divorava sfrigolando il sangue battesimale.
Il libro è pieno di momenti che restano impressi nella fantasia del lettore, ma quest'ultimo rende davvero l'idea. Chi altri, se non un uomo disperato, ricorrerebbe ad un nero battesimo? Un battesimo fatto col sangue, addirittura, e non cristiano - ma demoniaco.
La presenza del diavolo, in effetti, come entità nascosta, che segue quasi il Capitano e lo consiglia, profetizzando la sua morte, è palpabile. La questione viene sollevata parecchie volte, nel romanzo, e profonde una certa inquietudine legata alla sensibilità verso pronostici e maledizioni. Il diavolo, dopotutto, è somma di alcune nostre paure; un pensiero che insegue, tortura, e che rappresenta l'incapacità di darsi pace.
Quando finalmente odiamo il grido "Soffia! E' Moby Dick! Soffia, sotto vento!" quasi tiriamo un sospiro di sollievo e nel mentre siamo pieni di terrore.
Cosa succede davvero quando l'uomo trova ciò che ha popolato i suoi più neri incubi? Quale meccanismo si mette in modo, nel momento in cui la maschera viene tolta, e il muro divelto? Può un uomo abbracciare il mistero e svelarlo?
Quasi ho sperato che Achab si ravvedesse e, dopo il secondo attacco, tornasse alla sua nave e prendesse la strada di casa, ma poi mi sono resa conto che un uomo che si sente tormentato, sotto scacco di questa immensa domanda, questa immensa tortura che lo racchiude, non possiede nemmeno una casa. La terra è solo polvere, la nave è un insieme di assi di legno e tutto ciò che conta è scontrarsi contro la fronte delle proprie paure. Le balene, come dice Melville, hanno una fronte senza sensibilità, una fronte che può sopportare gli urti più terribili e mandare in pezzi una nave.
Sinceramente, ho adorato tutti i discorsi riguardo la fisionomia della balena, e mi sono innamorata dell'argomento, ma il tema della dicotomia eterna tra l'uomo e il male, tra l'uomo e le sue paure, tra l'uomo e l'universo, l'irraggiungibile, è assolutamente qualcosa a cui ognuno di noi deve pensare prima o poi. Tutti quanti in un momento della vita, prima o dopo, si rendono conto di quanto è piccolo l'uomo.
"Life is bigger, is bigger then you." Cantano i REM. Ed è vero.
Il romanzo non poteva che finire "male" ma male è la parola giusta? O forse dovrei dire che finisce come l'uomo stesso finisce, colando a picco con la propria testardaggine. Dopo una vita di sacrifici, tentativi, viene premiato con la morte, e non una morte serena - una morte che è delusione, culmine della sua sofferenza, e sconfitta.
Achab lotta fino alla fine, ma non credo gli interessasse di salvarsi la pelle; ha strenuamente ripetuto, più volte nel corso del romanzo, che il suo corpo non gli appartiene più, e che si armerebbe di pezzi di legno e sarebbe la stessa cosa della carne. Laddove ha perso la gamba, sente sempre uno sfrigolio, come se quella fosse ancora li e non nelle fauci di Moby Dick, negli oceani immensi dove questa l'ha portata. La sua lotta è finalizzata all'uccisione, al tentativo folle e disperato di eliminare quell'altro essere che lui odia.
Moby Dick alla fine stermina Achab e l'intero equipaggio del Pequod. Affondano nei flutti scuri anche i tre ramponieri, quegli invincibili uomini ritratti come dei. Tutto scompare, senza un lamento, tranne, per forza di cose, Ismaele. Egli si aggrappa a quella cassa che Queequeg s'era fatto costruire, nel momento in cui aveva deciso di passare all'altro mondo, e poi viene tratto in salvo dalla Rachele, che ancora continuava i suoi giri a vuoto, alla ricerca del figlio del Capitano Gardiner.
"Era la Rachele che andava bordeggiando, e che nel rifare la sua rotta in cerca dei figli perduti, trovò solo un altro orfano."
Busy Bee.
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