« Le piaceva passeggiare per strada con dei libri sotto il braccio.
Essi rappresentavano per lei ciò che il bastone da passeggio rappresentava per un dandy del secolo scorso.
La distinguevano dagli altri. »

giovedì 28 gennaio 2016


 Follia
 


Titolo originale: Asylum
Autore: Patrick McGrath
Editore: Adelphi
Prezzo: 9,00 euro  (Viva gli sconti.)



Photo by Busy Bee ©







Anche se è difficile crederlo, ci sono momenti magici per comprare libri: il periodo degli sconti! Un momento fatato in cui le attrattive già fortissime delle librerie aumentano del 100%. E ti ritrovi fagocitata in una dimensione onirica in cui ti lasci assorbire completamente, beata e immemore delle promesse che hai fatto non appena l'anno nuovo è cominciato. Il fatto è che non puoi controllarti, la tua è più che una ossessione - è una missione: devi salvare quanti più libri puoi dalla solitudine. 
Durante una delle mie missioni presso la Mondadori, ho notato la vastissima collezione di Adelphi su cui, in questo periodo, vice il 25% di sconto. Se prima per me era di rito annusarne le pagine, adesso anche la sola vista di una moltitudine di libri - tra cui molti di quelli che ho nella mia wishlist - mi provoca una sorta di vertigine. E' una sensazione quasi catartica, superiore a qualsiasi altra esperienza terrena. Non c'è niente di meglio che avanzare tra una pila di libri, incontrare con lo sguardo una catasta di volumi, notare subito, grazie alla vista da falco acquisita per esperienza, proprio quel titolo di Ian McEwan che desideri e poi, accanto, quasi il destino volesse darti ulteriore prova che le coincidenze non esistono, Lacci di Domenico Starnone. E si da il caso che Einaudi l'abbia edito in edizione economica. 
Nonostante le varie provocazioni, si da il caso che anche io posseggo un minimo di auto controllo. Dunque mi sono orientata solo sugli Adelphi. Ce n'erano a centinaia... no, forse centinaia no ma a decine e decine SI. Comunque, visto che ho iniziato a compilare un'agenda su cui meticolosamente annoto i libri che tassativamente leggerò quest'anno, ho cercato solo di trovare i volumi per cui mi ero già decisa. Ero orientata su Faulkner, Bennett, qualcosa di Pietro Citati, Nabokov e Patrick McGrath. La novità è che di quest'ultimo non mi ero impegnata su un titolo in particolare, quindi ho trovato Follia e l'ho aggiunta alla mia piccola pila con una certa soddisfazione. 
Solo quando sono arrivata a casa ho letto la trama e per un paio di giorni mi sono lasciata cullare da quella sorta di foschia familiare e ridondante che ti coglie se desideri qualcosa ed è a portata di mano. 
Avevo letto L'Abbandono di Heidegger, Festa mobile di Hemingway e Stoner ( l'ho amato ) e adesso volevo cambiare genere, lasciarmi sommergere da qualcosa di nuovo. E infatti ho avuto fortuna, perché Follia è stato una sorpresa su tutti i fronti. 
La storia viene raccontata da un narratore, in prima persona, poiché si tratta di uno psichiatra che con apparente distacco riporta tutti gli avvenimenti di una situazione grave avvenuta. Questo tipo di approccio, abbastanza realistico da coinvolgere la mia curiosità, ha suscitato subito una fascinazione molto grande su di me. E poi c'è anche quello che ho scoperto leggendo le informazioni sull'autore stesso: pare che sia cresciuto passando la sua infanzia in un'ospedale psichiatrico, visto che il padre era un medico psichiatra. E' incredibile come un particolare del genere possa suscitare un enorme curiosità.
Lo stile di scrittura è scorrevole, e non l'ho trovato ampolloso o lirico, ma essenziale e ben cesellato. Ho trovato, anzi, che lo stile di scrittura fosse parallelo all'intento dell'autore, cioè quello di rappresentare in modo crudo i fatti.
Il narratore si chiama Peter Cleave ed è uno psichiatra criminale; esercita la professione in un manicomio criminale. Siamo nel 1959, un tempo non troppo lontano da noi ma abbastanza da essere distante riguardo a certi parametri vitali che oggi non esistono più. 
McGrath è inglese e anche l'ambientazione lo è, la campagna inglese e non troppo lontana da Londra. Eppure il posto è isolato, tutto quanto è ammantato da quell'atmosfera vittoriana che dipinge tutto di mistero/interesse ma anche di cupezza. 
Al centro della vicenda c'è una donna, Stella, moglie e madre, donna frustrata e romantica. Si tratta di una donna rinchiusa in una sorta di microcosmo abitato da soli uomini; uomini che lavorano ( il suo compito, come quello di ogni brava moglie di uno psichiatra, è di occuparsi della casa e renderla confortevole. )  e che hanno il coltello dalla parte del manico, durante le conversazioni, perché sono esperti della mente umana. A uomini del genere non sfugge niente - o quasi - forse solo ciò che a loro fa comodo. 
Ovviamente, e me ne sono accorta forse troppo tardi, la lente di ingrandimento attraverso cui questa donna è presentata, non la rappresenta con totale parzialità. Spesso mi sono chiesta come sarebbe stato il racconto se narrato dal marito, dalla suocera, o da lei stessa. 
Che Stella sia una donna inappagata, su questo non c'è dubbio. Si tratta di uno spirito impulsivo e intenso, tenuto in gabbia da un matrimonio "nella media". La sua relazione col marito Max non ha nessun picco di passione o felicità, e si capisce che non ne ha mai avuti molti. Neanche loro figlio - il piccolo Charlie - riscuote molta attrattiva presso la madre. 
L'altro polo presso cui le attenzioni si raccolgono è Edgar Stark, paziente del manicomio criminale. Edgar è, secondo definizione, un'uxoricida paranoide. 
La brutalità del suo passato viene sbattuta in faccia a Stella immediatamente, dal loro primo incontro. 
Nel piccolo mondo del manicomio criminale, i pazienti in semi libertà svolgono dei lavori presso le case dei medici. Ed è così che i due incrociano i loro destini. 


"Perché sei qui?"
"Ho ucciso mia moglie."
"Perché?"
"Mi tradiva."



Quello che non riuscivo ad accettare, in questa parte del romanzo, era la totale incapacità di Stella di rendersi conto della situazione. Era attratta da un assassino, ma non sembrava fare caso alla gravità celata negli occhi così vivi dell'uomo. 
I due perdono la testa l'uno per l'altra e la relazione scoppia come una scintilla, rende Stella viva e lussureggiante come il giardino davanti casa. E' una calda estate, quella che assiste al risveglio inatteso della donna, e le brevi descrizioni dei frutti e degli ortaggi che vengono continuamente raccolti, sembrano di contorno all'esplosione della femminilità e felicità di Stella. Finalmente conosce cos'è la vera passione; un sentimento da cui non si può scappare e in cui lei vuole solo perdersi, dimentica di tutti i grigi particolari di cui è stata piena la sua esistenza.
Stella è una donna bellissima e il narratore lo ripete in continuazione; si sofferma sullo splendore della sua carnagione chiara, sui capelli corti e biondi, sulla fisicità prorompente. E' una donna che, tramite le parole di Peter Cleave, diventa la rappresentazione dei desideri di qualsiasi uomo. Io noto una certa riduzione della persona ad un oggetto - della donna ad un oggetto sessuale.
Diventa una donna selvaggia, rompendo lo schema in cui si è dovuta rinchiudere consapevolmente. 
Suo marito, un uomo la cui ambizione è diretta soltanto verso il lavoro, è completamente diverso da lei, e anche se è in grado di leggere i cambiamenti della moglie basandosi sulla comunicazione non verbale, sui particolari che un esperto della psiche non può ignorare, è completamente incapace di capirla e comprenderla più profondamente. Si ritiene una vittima e si comporta da tale per tutto il romanzo. 
Lascia addirittura scappare Stark, per dovere evitare di affrontare la verità di petto. Il problema è che sua moglie si è innamorata di un pazzo, un pazzo che si è infilato persino nella loro camera da letto e che gli ha rubato i vestiti. 
Edgar Stark è un'artista, uno scaltro, e fugge dal manicomio con una manciata di banconote e degli abiti con cui può sostituire la divisa gialla.
Durante il parapiglia che ne consegue, Stella è sottoposta ad una pressione non comune. Il sospetto "paterno" del direttore della struttura, la delusione e l'odio del marito incapace di reagire ( un uomo che inconsciamente sa, ma che preferisce tacere ) e l'osservazione di Cleave che è più una rilassata e divertente consapevolezza di ciò che succede. Lui è un altro personaggio che sa, ma che decide di non agire per appagare la propria curiosità accademica. Si muove in punta di piedi tra gli eventi, dispensando qualche consiglio e ascoltando le poche confessioni che vogliono fargli. Il suo atteggiamento è paterno, dimesso, e elegante. Risulterà essere il personaggio più inquietante di tutti.
La psicopatologia di Stella è descritta come un percorso in divenire; si capisce che una parte del romanzo è narrata seguendo ricordi e confessioni che hanno, in seguito, costruito un resoconto. L'ultima parte, solo quella, avviene nel presente.
Stella circondata da questi uomini che trattengono loro stessi dal provare veri sentimenti, e trattengono lei, decide di scappare e raggiungere il suo amante a Londra. 
Lo fa, dando un taglio netto alla sua vita di moglie e madre. Si ritrova in una dimensione lontanissima da quella asettica e silenziosa della casa dello psichiatra. Nel sottobosco londinese, periferico, in cui Edgar si è rintanato, regna il caos. I due amanti si avvicinano e si intrecciano, fino a scomparire e ricomparire nel loro nuovo idillio. Per Stella tutto il resto perde di importanza; non gli manca il marito, non pensa al figlio. Vive in un nuovo mondo e questo mondo gli piace; è pieno di artisti, uomini che mischiano pazzia e genialità, e che sono alla costante ricerca del vero.
Anche Edgar, anzi sopratutto lui, è un uomo che ricerca la verità delle cose e lo fa attraverso la scultura. Stella è la sua modella, colei che posa davanti a lui senza veli e si sente totalmente libera e appagata. Il pericolo di vivere con un uomo che ha assassinato sua moglie, e lo ha fatto perché incapace di distinguere la realtà dalla fantasia, non la ossessiona mai. Sembra che queste cose le scorrano via dal corpo, senza lasciare della loro disperazione nemmeno una lacrima.

"Sai che cosa ha fatto alla moglie dopo averla uccisa? L'ha decapitata e poi l'ha enucleata. Sai che vuol dire? Che le ha cavato via gli occhi."


Dice il direttore del manicomio, senza ricavare da lei nemmeno un brivido. 
Lei vede il suo amante come una forza della natura; un'uomo così lontano dal marito da risultare una sorta di miracolo. 

"Le donne romantiche riescono ad idealizzare tutto."

Questa frase del narratore, che alla prima lettura potrebbe sembrare una giusta spiegazione delle cose, in realtà è anche un tentativo di sminuire la donna e la sua fame di vita. Dopotutto, cosa è peggio tra il fingere di vivere e il vivere brutalmente? 
Edgar le offre tutta la vasta gamma dei sentimenti, da cui lei può attingere a piene mani, ma si rende conto, un giorno, di quanto la sua forza sia inarrestabile. Si rende conto che quest'uomo è effettivamente malato e che rimanere con lui significherebbe essere uccisa. Lo lascia, ma con la segreta promessa di ritrovarlo quando la furia omicida gli sarà passata.
E quindi torna nella sua gabbia, assorbita dall'astio silenzioso del marito a cui lei non si piega - ne si piegherà mai. 
A questo punto la geografia cambia; marito e moglie, più il figlio, si spostano nel Galles. Il luogo freddo che li accoglie sarà teatro della loro fine.
Lontana da Edgar, Stella viene completamente fagocitata dal nulla. Si, il nulla che le sta attorno  e che viene espresso sotto forma di gelide vallate e giornate passate ad aspettare la notte - il sonno. L'unica sua consolazione è, a volte, tenere la cosa in ordine.
La parte più triste ed il degrado maggiore si avverte nel rapporto già corrotto col figlio. Questo bambino che lei ha già abbandonato una volta, viene abbandonato lentamente e corrosivamente durante il soggiorno in Galles. La tristezza di Charlie è così forte che imbeve queste pagine del romanzo, poiché sua madre non nutre alcun interesse per lui. Lo ignora, lo tratta freddamente e lo dimentica. Completamente avvolta da una nebbia di spesso dolore e dal sapore del Gin che non le lascia mai le labbra, Stella continua la guerra fredda col marito e la battaglia con se stessa. Una battaglia senza fine, per uno spirito che sa di non potere più brillare in quella situazione di scontento. E' come se lei fosse caduta nelle sabbia mobili che, man mano, la stanno risucchiando.
Questo lento ma corposo fluire dei fatti dona quella percezione di decadimento che si materializza del tutto, durante un momento particolare. 
Assillata dal bambino, le cui carenze affettive sono note a tutti tranne che a lei, Stella decide di partecipare ad una gita scolastica in montagna. Tra le nebbie di quei luoghi, il freddo gelido, e le sue sigarette, osserva come niente fosse suo figlio affogare. E non è nemmeno certa di vedere lui, che si agita, la chiama in cerca d'aiuto, ma forse vede Edgar emergere dai flutti e rischia di annegare.
Rimane gelida a guardare, fumando, fino a che un atterrito insegnante non si lancia in aiuto di Charlie ormai morto. 
La decadenza è arrivata al culmine; Stella riceve la visita del "vecchio amico" Peter, il quale la convince della necessità di diventare sua paziente. 
Stella diventa paziente dell'ospedale presso cui, un anno prima, aveva presenziato da moglie di medico al ballo a cui partecipano tutti i pazienti e parte del personale. Durante quel ballo, lei stretta in un abito nero, aveva danzato per la prima volta con Edgar, sentendo di poter essere qualcosa di più - una dea, una donna libera chissà.
In questo momento forse si diventa consapevoli del ruolo giocato da Peter Cleave, poiché sono quelli più silenziosi ad essere i viaggi maggiormente strategici. A questo punto, e anche e sopratutto più avanti, ci si rende conto di quanto egli appaia come un teatrante che tiene in mano le sue marionette favorite. Non ha mai dato a Stella un tipo d'aiuto che potesse realmente cambiare la sua situazione, gingillandosi quasi con quella storia davvero piccante e i cui risvolti avrebbero potuto avvicinarsi ad alcuni desideri.
Gioca con lei, in modo sgradevole, le mostra dei ricordi a cui lei non può non fare caso. Le dice che Edgar ( che è stato intanto arrestato ) si trova nello stesso manicomio in cui è lei. Un lampo le illumina gli occhi. Lo psichiatra le dice che è tutto falso. 
Quella conversazione cambia le sorti della donna. 
A questo punto è lei a tenere tra le mani le redini della sua esistenza, anche se all'interno di una struttura come quella è davvero difficilissimo pensare che sia così. Ma nel suo piccolo, nella sua disperazione, lo fa.
Le mire dello psichiatra vengono rivelate: le accenna che potrebbero sposarsi, in modo da farle trovare protezione e di nuovo, forse, amore. 
Il libro è un intreccio molto ben riuscito di vari caratteri, di problematiche che vengono gestite in modo diametralmente diverso. La donna che è percepita come un oggetto o come una selvaggia, diventa una "madonna addolorata" che si aggira tra le mura del braccio femminile e ammalia con la sua copertura mistica tutti gli altri che la vedono. E se invece Stella fosse tante donne insieme? E se il libro fosse anche una sorta di parabola della donna che non può essere, in nessun modo, manovrata da un uomo? Anche se l'uomo è uno psichiatra criminale.
Il romanzo giunge al culmine, e alla fine, con un secondo ballo. E' passato un anno e Stella decide di partecipare, questa volta come paziente, e ormai agli sgoccioli della sua uscita dalle gabbie.
Lo psichiatra assiste alle danze della donna, al suo incedere maestoso con lo stesso abito dell'anno precedente, e si considera orgoglioso della sua scelta. Che coraggio, dice, ha avuto nell'indossare quello stesso abito. Deve averlo fatto per dimostrare a me, a tutti, che è fatta di una pasta forte e che vuole tornare a lottare.
E invece, quando più tardi si rende conto della verità, e che la donna l'ha sempre preso in giro, giungendo ad inventarsi l'elaborazione di un dolore che nemmeno sentiva ( la morte del figlio) pur di farsi credere in via di guarigione, arriva troppo tardi. 
E' troppo tardi per tutto, per essere liberi e per vivere.
Non l'aveva fatto per me, dice, ma per lui - Edgar. 
Edgar, con cui lo psichiatra gioca allo stesso modo, anche a carte scoperte, e che nelle ultime righe si capisce non avrà nessuna possibilità di guarire visto che è solo un feticcio tra le mani di un altro pazzo che però è libero.
E quindi è normale chiedersi: chi sono i veri folli? Quelli che si abbandonano ai sensi, alla ricerca di una verità d'espressione tutta loro, oppure quelli che professano una stabilità granitica e falsa?





Busy bee










































sabato 2 gennaio 2016

I Buddenbrook; T. Mann


I Buddenbrook



Titolo originale: Buddenbrooks
Autore: Thomas Mann
Editore: Garzanti Libri
Prezzo: /




Photo by Busy Bee ©



Attraverso le vicende di quattro generazioni, l'ascesa e il declino di una famiglia borghese di Lubecca, nel romanzo più famoso del grande narratore tedesco.



Ho letto I Viceré e da allora non ho mai smesso di provare interesse per le grandi saghe familiari. Mi piacciono le storie che danno modo di affezionarsi non solo ai personaggi, ma a delle famiglie, e in cui si viene risucchiati quasi inconsapevolmente. Si finisce per prendere le parti di qualcuno piuttosto che di un altro, sperare che la fortuna giochi a favore del proprio beniamino e che il declino sia lontano. Se siete amanti di saghe familiari e sad books, allora mettetevi comodi e godetevi il viaggio.
Pensavo che di Thomas Mann, avrei letto prima La montagna incantata, libro a cui penso qualche volta, ma le storie vengono a noi seguendo non sempre un disegno logico. Questa volta ho seguito un consiglio e mi rendo conto di avere fatto benissimo.
Ho iniziato a leggere I Buddenbrook in contemporanea a Moby Dick: due classici in una sola volta, si direbbe, ma io sono poligama e ho bisogno di variare. La cosa bella di leggere più di un libro alla volta è che si rimane avvolti da una storia, non appena finisce l'altra, e che la solitudine post lettura dura di meno. 
Alla letteratura tedesca, ho sempre preferito quella inglese, e più recentemente quella americana, quindi entrare a contatto con la società descritta nel libro non è stato difficile ma come respirare un'aria del tutto nuova. 
Il libro si compone di undici parti e comincia con una scena simbolica: l'inaugurazione della splendida casa nella Mengstrasse. 
La grande casa padronale è una dei protagonisti del romanzo, con la sua imponenza, la stanza dei dipinti, il sigillo posto sopra il portone d'entrata. 
La famiglia Buddenbrook è, all'inizio del romanzo, nel pieno della crescita e dell'espansione. Ciò riguarda sia lo sviluppo familiare che quello della ditta Johann Buddenbrook. L'atmosfera festosa, di raccoglimento, coinvolge il lettore. Ci sono gli anziani nonni, pronti a lasciarsi coinvolgere dalla giocosità dei nipotini, coloro che domineranno il romanzo - Thomas, Christian e Tony - e gli adulti, Johann e la moglie Elizabeth nata Kroger. 
L'opulenza della tavola dei Buddenbrook, in questa prima occasione che accoglie il lettore, ma poi spessissimo all'interno del romanzo, è chiave di un altro dei temi centrali - la borghesia.
Si sa che, nel romanzo di Mann, il mangiare bene e abbondantemente, è simbolo dello stare bene economicamente e della continua crescita sociale. I pasti sono descritti nel dettaglio, così come le portate, e sembra proprio che l'autore abbia chiesto, mentre scriveva la storia, di poter ricevere una grossa quantità di dettagli riguardo la cucina alla propria famiglia. La ricchezza di queste descrizioni, la spontaneità con cui sono tratteggiate un sacco di situazioni famigliari, in tutte le sfumature, fa credere che Mann abbia inserito nel suo romanzo della particolarità estrapolate dalla propria vita. 
E così che si leggono aneddoti dipinti con estrema vivacità: la Tony che va in giro per la città,  sentendosi regina, sottomettendo chiunque incontra ai propri scherzi, che litiga con i figli dei vicini e ne diventa nemica giurata; la compostezza di Thomas, l'indole scherzosa di Christian e la sua ipocondria. 
Si, perché I Buddenbrook, romanzo corale, romanzo di una vita, è attraversato da un'altra tematica fondamentale: la malattia. Ma non è malattia qualunque, si tratta di sofferenza legata a doppio filo con l'esistenza che si conduce. Ricorrono i disturbi di digestione, legati a quegli abbondanti pranzi che si susseguono nella Mengstrasse. Anche chi muore viene solennemente accudito con brodi di carne, fino all'ultimo, poiché sembra che riempire sia molto meglio che lasciare vacante.
Più o meno tutti quanti i membri della famiglia hanno problemi legati al cibo; tutti tranne la "magra, sempre affamata e paziente Klothilde" parente povera. Che ironia. Ella ha il problema opposto: sembra che niente possa lenire quella fame atavica che ha. Lasciata agli scherzi dei suoi ricchi parenti, li sopporta con una sorta di stoica calma.
I disturbi alimentari dei Buddenbrook vengono curati dalle parole del medico Grabow, bonario e, come sembrerà, immortale. Piccione e pane bianco. 
La figura del medico in questo romanzo è davvero indimenticabile. I Buddenbrook è inevitabilmente un romanzo pieno di morti, malattie e sofferenze, ma è impossibile non notare che il medico, pur essendo fedele e presente al capezzale del malato, non è mai in grado di cambiare la situazione. I rimedi medici non alterano quello che sembra essere il destino dei malati, seppure questi si pieghino con innocente fiducia alla speranza. Grabow stesso, lo pensa, che sarebbe quasi una sorta di interferenza vietare che quelle persone si comportassero come loro solito. E' più un testimone del decorso e della decadenza, più che un attore. 
Come testimoni sono le folle che circondano la casa; gli amici, i colleghi, e ovviamente il narratore della storia.
La scrittura di Thomas Mann è meravigliosa. D'altronde, come si può non apprezzare un premio Nobel? Ho trovato questo libro di una ricchezza impressionante, e insieme di grande scioltezza.
I significati politici sono nascosti nelle pieghe degli eventi, in piccoli accadimenti che coinvolgono questo o quello ma che sono estremamente significativi. Tutto viene ben congegnato e segue una sorta di disegno, così che quando si sfoglia l'ultima pagina del romanzo ci si rende conto di avere guardato nella stessa direzione tutto il tempo. Si capisce che - Non poteva che andare così.
Quando Tony, ancora fanciulla, va a passare le sue vacanze al mare presso amici di famiglia, ecco che fa un incontro fondamentale per la sua esistenza - l'uomo che ama, ma che non sposerà mai, e che è un rivoluzionario con delle idee opposte alle sue.


Era inevitabile che Tony si trovasse spesso con le sue conoscenze di città sulla spiaggia o nel giardino del Kurhaus, che fosse invitata a questa o quella festa o a una gita in barca.
Allora Morten 'sedeva sulle pietre'. 

Quelle pietre, fin dal primo giorno, erano divenute fra loro due un modo di dire fisso. 

"Sedere sulle pietre" voleva dire "essere soli e annoiarsi". 

Quando arrivava uno di quei giorni di pioggia che avvolgevano tutto il mare in un velo grigio, unendo con il cielo basso, e inzuppavano la sabbia sulla spiaggia e bagnavano le strade, Tony diceva: "Oggi dobbiamo sedere tutti e due sulle pietre... Cioè sulla veranda o nel soggiorno. Non le resta altro che cantarmi le sue canzoni studentesche, Morten, sebbene mi annoino terribilmente."

 "Si," diceva Morten "sediamoci... Ma vede: quando c'è anche lei, non sono più pietre!"



Tony Buddenbrook è stata forse il mio personaggio preferito, la cui crescita viene descritta con maestria innata. 

"Adesso non sono più un oca."


Ripete spesso, ogni volta che vuole incoraggiare gli altri a trattarla come una adulta, o farsi coraggio per affrontare le avversità. Tony ha una delicatezza tuta sua, ed un lato infantile che riesce a tenerla  al riparo dalle spiacevolezze che le capitano. Nell'immaginario del lettore è vivido il suo bel volto chiaro e quel labbro superiore un po' sporgente. 
Devo ammettere di avere sperato che, dopo le sue disavventure matrimoniali, incontrasse ancora il mai dimenticato Morten. Ma I Buddenbrook non è quel tipo di romanzo: non contiene speranza di felicità a lungo termine. Si percepisce, anzi, pagina dopo pagina, che la sfortuna è dietro l'angolo, e il talento di Mann si lega allo spirito del lettore così che è facilissimo, immediato, immaginare cosa accadrà. Si percepisce "l'odore" della sventura, per così dire. 
Sua caratteristica fondamentale, tragicomica, è quella di volere che tutto sia distinto nella sua vita. L'orgoglio che prova nei confronti dell'importanza della famiglia la spinge a prendere decisioni sofferte, che mettono la sua persona in secondo piano rispetto al resto. Eppure, nonostante questo personaggio abbia in se i tratti della commedia e della tragedia, penso che sia il meglio riuscito. Riusciamo a seguire quasi tutta la sua vita, la sua evoluzione, e la lasciamo viva seppure quasi completamente alla deriva. 
Indimenticabili, che spingono alla riflessione e al sorriso, sono i suoi discorsi al fratello Thomas, o alla madre. Fa inevitabilmente tenerezza.
Man mano che la narrazione prosegue, e sopratutto le generazioni cedono il posto alle altre, l'attenzione per il consumo dei banchetti, quell'atmosfera gaia, perde il ruolo centrale. Forse perché, non appena è Thomas a prendere il posto del padre negli affari, la figura del capofamiglia subisce una rivoluzione. Thomas non è come i suoi predecessori, mira più in alto, è più ambizioso e la scelta della consorte ( Gerda ) è per lui una sorta di passo in avanti. Gerda non è solo ricchissima, ma diversa dalle altre donne che popolano queste pagine. Ha grande amore e talento per la musica, suona il violino, e perciò viene vista da Thomas quasi come un gioiello che potrebbe abbellire la copertina già scintillante del libro di famiglia. Eppure la scelta della consorte non è che una delle avvisaglie: Thomas è destinato a fallire, e non solo economicamente, ma spiritualmente.
Nel suo stesso odio nei confronti dello sfaticato e malato cronico fratello Christian, ho letto i sintomi di una malattia che si sarebbe presto palesata è arrivata; la stessa malattia che lo spinge ad accettare un affare non troppo onesto, e che gli impedisce di amare suo figlio Johann - Hanno - del tutto. 
Come l'azione del mangiare rappresenta una ben più ampia attività commerciale e vitale, allora perdere i denti, o far ricorso al dentista, non è che una oscura profezia.
Dopo alcuni anni di matrimonio, nasce il piccolo Johann ( chiamato poi Hanno affettuosamente ) e questo continuo ripetere dell'autore il piccolo Hanno, il piccolo Johann alla fine sembra una premonizione, come se si parlasse di uno destinato a rimanere piccolo per sempre. L'erede è salutato con una grande festa, ma agli occhi del lettore, quando gli anni passano, si palesa la crescente insoddisfazione di Thomas nei confronti del figlio. Questo bambino così delicato, la cui infanzia è costellata da incubi, e il cui carattere delicato non regge nemmeno l'esposizione di una poesia, è predestinato. Dopotutto, la mancanza di fiducia di una padre nei confronti di un figlio non è una sorta di maledizione? Thomas non fa che guardarlo con delusione, non fa che riprenderlo, attaccarlo, e sottoporlo alla tortura del dentista. Il fatto dell'estrazione dei denti, in continuazione, su un bambino così piccolo, e fragile, fa venire in mente un'idea che poi sarà lo stesso Hanno a sottolineare in seguito. Senza denti come si fa a masticare? Se i denti non sono buoni, allora questa vita fatta di forti appetiti non può essere affrontata.

"Non riesco a volere." dice Hanno a Kai - il suo unico amico - "Come farò a 30 o 40 anni, se adesso ho tutti i denti rovinati?" 


Hanno cresce in una sorta di isolamento auto indotto e spezzato solo dalla presenza del piccolo conte Kai. Questi è l'unico che costituisce per lui un motivo di gioia, di compagnia, insieme alla musica - passione che la madre gli ha passato quasi per osmosi. 
Devo ammettere di essere rimasta più colpita da questa parte del romanzo piuttosto che dal resto: queste pagine così vicine all'anima sensibile del ragazzo sono di una bellezza piena di delicatezza, di paura, e di una strana e brutale consapevolezza. Lui ha la consapevolezza di non essere adatto a questo mondo, cosa che il suo defunto padre, più che aver capito, ha presagito.
La fine di Thomas Buddenbrook è la più umiliante dell'intero romanzo, eppure su di me non ha avuto effetto di commozione, probabilmente perché considero questo personaggio il peggiore. La sua storia è costruita benissimo, tutti i fili vengono tirati, e spesso ho avuto la sensazione di assistere ad una sorta di teatrino dei pupazzi. Thomas rimane avvinghiato ai troppi fili che lui stesso ha messo in gioco, da cui non sa uscire, e che un giorno ha deciso di non sciogliere più.
E' iniziato come sensazione, questo pensiero che della fine - del declino - e si è tramutato in certezza. I suoi denti iniziano a marcire e anche lui deve farseli tirare. Quant'è spaventosa questa metafora dei denti che vanno tirati! E' una delle cose più brutali e tristi dell'intero romanzo. 
Di ritorno a casa, cade in una pozzanghera, e li viene raccolto quest'uomo che s'è sempre preso cura di se stesso e che non ha mai avuto i baffi fuori posto.
La descrizione della morte, questo grande avvenimento sociale in cui gli estranei hanno parte integrante, è sempre trattata con accuratezza tale da legarsi benissimo alle peculiarità dei personaggi.
Se la morte del, nobile vecchio padre di Elizabeth Buddenbrook - nata Kroger - avviene in carrozza, d'improvviso, ammantata dall'orrore del vecchio che lascia spazio al nuovo, dopo una seduta parlamentare, quella di suo genere Johann è prematura e veloce. La morte della madre di Tony, Thomas e Christian è descritta nei particolari, tratteggiata così che il lettore immagini passo dopo passo il corpo rovinato dalle febbri, e la tenacia con cui la donna cerca di attaccarsi alla vita, poi finalmente il trapasso. Si tratta di descrizioni davvero crude, che colpiscono al cuore; peggiori risultano però, perché ammantate di quel misticismo che permane, le narrazioni riguardanti l'esposizione del cadavere.
Così guardiamo insicuri, silenziosi e disgustati, il corpo di quella che era stata Elizabeth Buddenbrook, esattamente come fa Hanno; quella non è la nonna, c'è rimasto solo un involucro, una maschera, e nulla di più!
E infine lui, l'ultimo Buddenbrook a cui nessuno ha dato troppa fiducia ( tranne la zia Tony, irreparabilmente ottimista e affettuosa ) va via in modo silenzioso. 
Prima di farci capire che è morto, Mann si lancia nella descrizione di una sua giornata scolastica, ci fa sentire perfettamente il terrore che ogni scolaro assapora quando non ha studiato per le lezioni. L'atmosfera cupa, lontana, che avvolge quel ragazzino troppo delicato e straordinario, ci stringe fino a togliere il respiro. 
Segue la descrizione di come il tifo uccide le proprie vittime, e siamo alla fine del romanzo.

"Ormai il piccolo Johann Buddenbrook riposava da sei mesi..." 


Ecco, è tutto finito. Gerda ha deciso di tornare ad Amburgo dal padre, per potere ancora suonare con lui, come chiudendo una parentesi della sua vita che si è protratta per vent'anni, e Tony non trova alcun motivo per non essere d'accordo. 
Il sapore in bocca è amaro, ma d'altronde il sottotitolo del romanzo è: Decadenza di una famiglia. 
Il romanzo si chiude con le donne rimaste: c'è Tony, Gerda, le parenti nubili, quelle che furono sempre pronte a rallegrarsi delle sfortune dei protagonisti, Klothilde, magra e paziente, ma non più povera di loro ormai, e poi Sesemi, la vecchia e piccola insegnante di Tony. E' sopravvissuta a tutti quanti e, battagliera, si alza in piedi ed esclama che, si un giorno si rivedranno tutti quanti, senza lasciare alle altre modo di ribattere. Magra, magrissima consolazione.





Busy Bee














































domenica 27 dicembre 2015

Moby Dick; Melville

Moby Dick

Titolo originale: Moby Dick
Autore: Herman Melville
Editore: Garzanti
Prezzo: 10, 50





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"Capolavoro di Melville, Moby Dick (1851) è insieme un appassionante romanzo d'avventura e una potente allegoria del conflitto primordiale tra l'uomo e le forze misteriose della natura, una tragica epopea piena di sangue e di morte e una profonda metafora dell'umano destino, della disperante ambiguità del vivere in cui l'uomo si dibatte senza possibilità di scelte definitive. Il mare, omerico e biblico al tempo stesso, è il regno dei mostri, del terrore, delle immense profondità che sfuggono alla comprensione umana. La balena bianca contro la quale lotta ostinatamente e inutilmente Achab è un'incarnazione del mitico Leviatano, un abbagliante simbolo dell'assurdità del mondo. L'eroico capitano è un Faust orgoglioso e dolente che vuole distruggere nell'odiato animale il male stesso. Il viaggio del Pequod a caccia del mostruoso cetaceo evoca un'umanità alla ricerca di senso in un'affannosa esplorazione che tuttavia conduce solo a riconoscere l'ineffabilità dell'essere."







Ho deciso che avevo bisogno di un'avventura e così ho preso questo libro, sottraendolo allo scaffale, e mi sono imbarcata sul Pequod. Sapevo sin dall'inizio che non sarebbe stato facile, che forse avrei impiegato del tempo per immergermi a dovere in questa storia, ma non immaginavo una navigata così vorticosa. 
La passione per i libri supera qualsiasi altra mia aspirazione; la passione per la letteratura straniera è al culmine in questo periodo. Devo assolutamente - è una decisione che ho preso in mattinata - leggere tutti i classici il 2016, e darò rilievo e importanza ai libri come Moby Dick. 
Penso che il libro di Melville sia, come alcuni altri, radicato non solo nell'immaginario comune ma proprio nell'inconscio della gente. Anche coloro che, per varie ragioni, non solo non lo hanno letto ma riducono le letture in generale a poco più che un rara casualità, associano parole come avventura balene capitani a Moby Dick. 
Io non solo ho bisogno di avventura, ma anche di interrogarmi profondamente riguardo me stessa; ho bisogno di scoprirmi, di capire cosa ho dentro, e questo libro l'ho letto nel momento giusto della mia vita. 
Ma andiamo per gradi.
Le linee generali della storia le conosciamo tutti quanti, per quei motivi che posso riassumere in una sola frase: Moby Dick è un capolavoro della letteratura. 


"Chiamatemi Ismaele."


Chiunque abbia già letto il libro, probabilmente avvertirà brividi insorgere sulla pelle nel leggere le prime due parole che compongono il romanzo. 
Ma come mai Melville ha scelto proprio questo nome? 
Ismaele è, nella Genesi, figlio del patriarca Abramo e della schiava Agar. Questo figlio, insieme a sua madre, viene allontanato da Abramo nel tentativo di ovviare alla crescente gelosia di sua moglie Sara. Ecco quindi che Ismaele è un personaggio abbandonato all'incertezza, alle spire di un destino difficile. 
Anche il nostro Ismaele è così - un uomo che viene risucchiato da eventi più grandi di lui, avvolto nel viaggio burrascoso a cui si è affidato. 
Ci sono storie e storie, ed io ne ho lette abbastanza da sapere discernere tra di esse. Ci sono racconti che ti accompagnano per un po', accarezzando lo spirito del lettore, assecondando la gioia o ispirando riflessioni. Questo romanzo è un'esperienza. E' una vita in cui immergersi. La cosa che più mi stupisce, quando mi ritrovo davanti alla letteratura importante, è la capacità dello scrittore di descrivere alla perfezione le sfumature della vita, della quotidianità, dei moti dell'anima. Così è Melville e non solo. Ho potuto quasi intravedere, in queste molte pagine, l'espressione disperatamente ossessionata di quest'uomo mentre scriveva.
Tutti gli scrittori sono ossessionati dalla loro storia, dal bisogno - che è simile ad una febbre - di buttare giù se stessi, il mondo, sopra pagine vuote. Si avverte, questo voglio dire, il disperato bisogno di raccontare che Melville deve avere avuto; forse questo si intreccia sapientemente al bisogno del personaggio stesso. Eppure è così interessante, piacevolmente difficile, cercare di sfiorare un animo così incredibile come quello di uno scrittore di tali altezze. 


"Nantucket! Prendete la carta geografica e cercatela. Osservate come se ne sta in un vero e proprio angolino del mondo."


Questa città, descritta come un luogo abitato da uomini prescelti, si trova nello stato del Massachusetts - su di un'isola. Melville ce la fa immaginare e sognare: è patria dei migliori balenieri del mondo. Ricorre il paragone tra i balenieri inglesi e quelli Nantuckettesi; facile è iniziare a divagare, accompagnati dai lunghi monologhi di Ismaele, riguardo ad un mondo che ormai non esiste più.
Nantucket esiste oggi, non è stata divorata dall'acqua come nelle leggende lo fu Atlantide, ma ecco che arrivo al punto. E' quel mondo che ormai non esiste più, che è bello immaginare. L'ambientazione del libro, in termini cronologici, è fermata al lontano 1850. Un tempo che a noi sembra antico, e che infatti non potrebbe realizzarsi più se non nella nostra immaginazione più esasperata. Si tratta di anni in cui l'importanza della sopravvivenza di un uomo superava la sua predisposizione alla crudeltà. Le balene venivano cacciate per ottenere un materiale molto prezioso ( lo spermaceti - olio ) per l'illuminazione, quindi siamo molto lontani dai recenti cacciatori di balene.
Come sarebbe bello, pensavo, potersi imbarcare da New Bedford e raggiungere Nantucket per iniziare un'avventura. Oggi non c'è avventura che il denaro non possa comprare, mi è stato detto qualche giorno fa, ma io non sono d'accordo. Alcuni universi sono stati seppelliti per sempre dalla modernità e non torneranno più. Se questo sia un bene o un male, ci vuole tempo per giudicarlo.
Dicevo che quel mondo è scomparso, e che mondo! Il lettore si abbevera di descrizioni cittadine, umane, che lo lasciano immergere in realtà incredibili. A Nantucket è facile incontrare l'uomo di chiesa, un tempo anche lui uomo di mare, e il selvaggio cannibale giunto da isole che si trovano dall'altra parte del mondo.
E infatti, Ismaele incontra Queequeg, che diventerà suo compagno e amico. 
Ho trovato commovente questa amicizia; penso che le amicizie migliori partano dal presupposto di non giudicare mai quello che è l'origine di un uomo, ma nell'accettazione dell'essere nella sua totalità. E così Ismaele prega insieme a Queequeg davanti al piccolo idolo Yojo, certo di fare del bene. A questo proposito, Melville scrive una riflessione alquanto moderna sulla religione.

"Ora, come ho già asserito, non ho niente da dire contro la religione di nessuno, qualunque sia, fintanto che questa persona non si metta ad ammazzare ed insultare nessun altro perché quest'altro individuo non ci crede pure lui. Ma quando la religione di un uomo diventa pazzia autentica, quando si trasforma in vera e propria tortura, e insomma rende questa terra nostra una scomodissima locanda, allora mi pare proprio il momento di pigliare a parte quell'individuo e farsi una piccola discussione." 


Quanto è attuale questo pensiero? Sopratutto ora che la follia e il fanatismo religioso sembrano filare sulla nostra terra. E sorge spontaneo chiedersi cosa ne penserebbe questo Melville che aveva tale chiarezza di pensiero, a riguardo. 
Ismaele e Queequeg si imbarcano sul Pequod; nave che parte sotto i tetri presagi di Elia (Sempre nomi biblici) uomo giudicato "pazzo" e ignorato. 
Io non stavo nella pelle che cominciasse questo viaggio, che si imbarcassero e le mirabolanti avventure giungessero presto. Durante tutta la mia vita ho sentito persone catalogare Moby Dick come un romanzo d'avventura per ragazzi, ma non lo è affatto! Non è assolutamente un libro per bambini e non è assolutamente - non solo - un libro d'avventura. 
Il tema principale di questo romanzo è l'ossessione, la disperata lotta dell'uomo che cerca di trovare, sopraffare, le sue più profonde paure. D'altronde il mare è simbolo dell'infinito per eccellenza; il mistero di questo elemento esercita da sempre sull'animo umano ammirazione e terrore. 
La balena, che il lettore si aspetta spunti improvvisamente dalle pagine del libro, si farà attendere, ma allo stesso tempo è sempre presente. 
I protagonisti di questo romanzo sono diversi, ma tra i principali vi è Achab, il capitano, che incarna tutta la sofferenza dell'uomo in generale. L'uomo, come creatura, alla mercé di questo vasto mondo, dell'oceano, delle forze primigenie e immortali che lo rendono fragile e debole. 
Il capitano Achab, come tutti i personaggi folli e sofferenti, esercita una enorme fascinazione e presa sul lettore. Quando entra in scena, con quel rumore che la sua gamba di legno produce sul cassero, non si può che assumere ancora più attenzione cercando di cogliere qualche dettaglio in più e qualche briciola che spieghi, riveli, sfumature della sua anima. Melville è maestro nello spiegare, lasciando intravedere piano, la storia dei suoi personaggi. 
Il romanzo ha una struttura complessa ed è costituito da momenti d'azione, in cui tutta la gloria della nave che avanza sull'oceano può essere respirata, che s'alternano a lunghe descrizione dettagliate riguardo la fisionomia, la storia, persino la simbologia del grande leviatano. Ognuno di questi monologhi però, viaggia non a vuoto - ha sempre un significato più profondo nascosto all'interno e che viene svelato sempre alla fine, quando il capitolo successivo è ormai bene in vista. 
Ovviamente, come probabilmente lo stesso autore, Ismaele è così ossessionato dalle balene da volerle studiare affondo e volere elaborare una sorta di trattato che illumini i futuri studi dei posteri. E così che fa un viaggio a ritroso nel tempo, raccontando anche di studiosi e delle loro opere più o meno buone, citando pittori e dando la possibilità al lettore di toccare con mano la veridicità di quello che sta raccontando. ( Molto spesso ammette di volere fornire delle prove, di volere convincere il lettore "sprovveduto" perché manchevole di esperienza di balene, in modo che possa credere a queste storie.)
I viaggi all'interno del romanzo sono tanti, polivalenti, ed è presente una magnifica coralità di voci. 
Non c'è solo la costante, profonda riflessione, di Ismaele, ma a lui spesso si sovrappongono quelle degli altri. I monologhi interiori di Achab, che danno l'impressione di essere sempre dei sussurri che accompagnano il vento, sono assolutamente indimenticabili. 
La storia è risaputa: Moby Dick, questa balena descritta come un mostro, un demone capace di vendetta e atti efferatissimi, gli ha strappato una gamba tempo prima, e da allora il Capitano Achab non ha che in mente un solo pensiero - ucciderla. 
Ma cosa è Moby Dick se non l'altro, il terribile e l'inafferrabile, il destino? E uccidendo la balena, se mai dovessimo riuscirsi, non uccidiamo anche noi stessi? 
E' come se, leggendo, potessimo insinuarci nella vita, nella storia, dei vari attori che si muovono sulla scena. E se il Capitano Achab è mosso da un solo scopo, di cui parla nel sonno, per cui incita la ciurma appendendo un doblone all'albero di maestra, gli altri uomini rappresentano i vari gradi di facoltà umana di adeguarsi alla vita che prende decisioni per loro. Il primo ufficiale Starbuck, uomo onesto e consapevole, è quasi l'altra faccia della medaglia - è, può immaginare il lettore, come sarebbe stato Achab se non fosse finito in quella spirale di malattia che lo divora vivo, giorno dopo giorno, onda dopo onda. Starbuck è l'unico che, durante il giuramento a cui Achab sottopone i marinai, si riserva di non rispondere subito con un - SI. Davanti alla continua battaglia del Capitano, egli retrocede; percepisce benissimo la vitalità mostruosa di quel "vecchio" che si scontra contro la sua stessa mortalità. 
Mentre tutto l'equipaggio è esaltato, travolto dalle risate e dal carisma di quell'uomo che ha promesso loro sangue, il primo ufficiale è profeticamente triste. Ma non può tirarsi indietro, nessuno può: è la vita. 
Il patto è questo: chi avvisterà per primo la balena bianca avrà quel doblone. Pian piano la follia si propaga, fino ad entrare nel sangue di tutti coloro che sono nella nave. La nave stessa, se vogliamo, è una allegoria; Achab stesso sembra una sorta di spirito senza requie che possiede la nave. Egli si stende sul pavimento, ascolta i rumori dell'oceano, è capace di sentire nell'aria gelida della notte, in quella odorosa del giorno, la presenza delle balene.

"Vendetta su un bruto senz'anima!" esclamò Starbuck. "Su un bruto che ti colpì solo per il più cieco istinto! Ma è una pazzia! Capitano Achab, suona blasfemo odiare una creatura incosciente."
[...] "Se l'uomo vuole colpire, deve colpire la maschera! Come può evadere il carcerato se non forza il muro? Per me la balena bianca è quel muro. Me l'hanno spinto accanto. Qualche volta penso che li dietro non c'è niente. Ma è sempre abbastanza. Mi chiama alla prova. Mi opprime. In essa vedo una forza che è un oltraggio, con una malizia inscrutabile che l'innerva. Quella cosa incomprensibile è sopratutto ciò che odio. 
Forse la balena bianca è il mandatario, e forse è il mandante, ma io gli rovescerò addosso questo mio odio."


I dialoghi tra il Capitano e il suo primo ufficiale sono i più belli del libro. In essi è tangibile lo scontro fra due identità opposte, ma complementari. La drammaticità dei tentativi di Starbuck di riportare l'uomo Achab alla ragione è palpabile, commovente.
Gli altri personaggi, come il secondo ufficiale Stubb e il terzo Flask sono caratterizzati alla perfezione e, come ho già detto, rappresentano dei tipi d'uomo specifici. Achab stesso dice di Stubb che è "coraggioso in modo meccanico" mentre, seppure vada contro a Starbuck, riconosce in lui un uomo onesto, di valore, di cui si fida. 
E' possibile rivedersi in tutti i personaggi. 
Non sono solo membri dell'equipaggio del Pequod, ma uomini che vanno incontro alle difficoltà della vita, allo strazio di doversi consumare e comunque non avere niente in cambio. Questo pensiero è perfettamente espresso da uno dei monologhi del Capitano. Sono stato in mare per quarant'anni, dice, e soltanto tre sulla terra, e cosa ci ho guadagnato? Questi capelli bianchi? 
Non immaginereste mai quanto è difficile la vita di un baleniere e Ismaele si premura di rendere quanto più trasparente la situazione. Narrazioni meravigliose, lunghe e particolareggiate da dettagli tecnici illustrano le modalità di squartamento della balena, gli attrezzi utilizzati per darle la caccia, e l'importanza del mestiere di ramponiere. 
Queequeg, di cui si è già detto, e che è uno dei miei personaggi preferiti, diventa ramponiere per la sua estrema abilità nel lancio del rampone. Per lui ci sarà la novantesima, in termini di guadagno, mentre il suo amico Ismaele viene lasciato molto indietro in termini di importanza. 
Le figure degli altri due ramponieri, Tashtego e Daggoo, sono vivide e ammantate di quello splendore esotico che continua dall'inizio alla fine. Vengono ritratti come giganti che si ergono sulla chiglia della nave, luccicanti di spuma marina, coraggiosi come leoni e capaci di porre un fermo alla morte. 

"Presto si vide che la cassetta del carpentiere non serviva più: e a quel proposito quando qualcuno espresse la sua lieta sorpresa, Queequeg rispose in sostanza che la ragione della sua convalescenza era questa: al momento critico, si era appunto ricordato di un piccolo dovere a terra che che stava per lasciare incompiuto, e perciò aveva cambiato idea quanto a morire: ancora, dichiarò, non poteva morire. Allora gli chiesero se vivere o morire dipendesse dal suo sovrano volere e piacere. Certamente, rispose. In una parola, l'idea di Queequeg era che se un uomo si metteva in testa di vivere, una semplice malattia non lo poteva uccidere."


Io ho trovato questa saggezza di Queequeg meravigliosa. Lo spirito di un uomo può essere così forte da decidere per se stesso, senza lasciarsi influenzare. E' davvero incredibile come questo "selvaggio" sia libero quanto Achab è prigioniero. 
Vivere in mare, viene ripetuto, è pura libertà; in mare non esistono distinzioni sociali, si è tutti marinai sotto la supremazia di un Capitano. Si è tutti uomini. Gli uomini sono manovrati dal caso, da una sorta di forza che Achab sente pesare, scendere dal cielo, avvolgere e schiacciare le membra a volte. Una forza a cui, dice, si piegherebbe se solo fosse benigna, ma che continuerà a combattere con ogni goccia del suo sangue. 
Ma ritornando alla caccia. Achab dice che un Capitano di una baleniera deve dare agli uomini ciò che si aspettano: ebbene veleggiare senza raccogliere nemmeno un barile d'olio sarebbe stato impensabile. Quindi ci sono delle scene di caccia, alcune più cruente delle altre. In una di esse, Stubb colpisce una vecchia balena malata, proprio nel punto in cui una terribile ferita la faceva soffrire. Il sangue ricopre gli occhi di chi guarda, e di chi legge, e invariabilmente si è tristi. E' ovvio, oggi dopo tante violenze, ne siamo talmente saturi da aborrire queste pratiche. Anche l'uccisione di un animale, può essere fatta con una certa dignità, ed è quello che pensa Starbuck che non fa in tempo a fermare la mano del secondo ufficiale. 
Melville descrive tutto, ci fa sentire la fatica, vedere il sudore di chi trasporta la balena, e i rumori delle code degli squali che durante la notte fanno festa al cadavere dell'enorme pesce ancorato al Pequod. Le bocche degli squali, così bramose, non si discostano poi tanto dalla fame di certi uomini. 


"La vostra fame lupigna, fratelli, non ve la rimprovero certo: è la natura, e natura non si cambia; ma un po' di freno a questa natura diabolica, è questo che dico. Pescicani siete, non c'è dubbio. Ma se al pescecane di dentro ci mettete una cavezza, perdio allora siete angeli; perché un angelo non è altro che un pescecane ben controllato."


Tutto il romanzo è come ammantato da questa fame inesauribile: fame di ricerca, di vendetta, di tutto. Ci si ritrova a sperare che Achab riesca ad uccidere Moby Dick, ad un certo punto, tale è la sua sofferenza. Un dolore che entra anche dentro di noi, che si trascina da un incubo ad un altro, e che fa urlare, imprecare, rivolgersi al cielo e all'oceano all'unisono.
La folle determinazione del Capitano viene svelata nel corso del romanzo, con altrettanta determinazione da parte dell'autore. Il Pequod incontra innumerevoli navi, durante il suo giro del mondo, e Achab, come se ogni uomo che incontrasse diventasse sempre più alieno, risponde irreparabilmente sempre "Avete visto la balena bianca?"
Le navi baleniere, racconta Melville, hanno una peculiarità quando si incontrano che è quella del Gam. Una sorta di saluto che include la visita dell'altra nave, da parte di uno dei Capitani, e il raggiungimento dell'altra da parte degli ufficiali. Achab elude queste consuetudini, limitandosi alla propria corsa verso il nulla. E' proprio quando il Pequod incontra la Rachele, che il lettore, se non l'avesse fatto fino ad ora, si rende conto dei sentimenti di Achab nei confronti del mondo.


"Non me ne vado." disse lo straniero. "Finché non mi dite di si. Fate a me ciò che vorreste che io facessi a voi in un caso simile, perché anche voi avete un figlio Capitano Achab... per quanto ancora bambino e sicuro nel nido, a casa... un figlio anche della vostra vecchiaia... si si ora vi commuovete, lo vedo... svelti, ragazzi, pronti a bracciate in croce!" 
"Fermi!" urlò Achab. "Non toccate niente." poi con una voce che plasmava lenta ogni parola: "Capitano Gardiner, non posso. Anche ora sto perdendo tempo. Addio. Il signore ti protegga amico, e possa io perdonare me stesso."


Lo scontro con Moby Dick, quello fisico almeno, poiché in realtà tutto il libro è uno scontro con l'assoluto, il non conosciuto e l'irreale, è riservato alle ultimissime pagine del romanzo. Gli ultimi tre capitoli, sono quelli decisivi, e che risucchiano il lettore e l'equipaggio letteralmente nel vortice dell'oceano.
Mi è rimasto impresso l'ultimo ( o uno degli ultimi ) dialogo del Capitano con Starbuck. "Capitano, mio Capitano, torniamo indietro." dice, non appena uno spiraglio di emozione, razionalità, si presenta tra le pieghe dell'animo martoriato di Achab. 

"No, no, niente acqua per questo; lo voglio temprato proprio nella morte. Oè, là! Tashtego, Queequeg, Daggoo! Sentite, pagani, volete darmi un po' di sangue per coprire questa punta?" Un gruppo di tetri cenni rispose: "Si." Si fecero tre punture nella carne pagana, e poi si temprarono le punte della balena bianca. "Ego non baptizo te in nomine patris, sed in nomine diavoli!" Urlò Achab smaniando, mentre il maligno ferro divorava sfrigolando il sangue battesimale.


Il libro è pieno di momenti che restano impressi nella fantasia del lettore, ma quest'ultimo rende davvero l'idea. Chi altri, se non un uomo disperato, ricorrerebbe ad un nero battesimo? Un battesimo fatto col sangue, addirittura, e non cristiano - ma demoniaco. 
La presenza del diavolo, in effetti, come entità nascosta, che segue quasi il Capitano e lo consiglia, profetizzando la sua morte, è palpabile. La questione viene sollevata parecchie volte, nel romanzo, e profonde una certa inquietudine legata alla sensibilità verso pronostici e maledizioni. Il diavolo, dopotutto, è somma di alcune nostre paure; un pensiero che insegue, tortura, e che rappresenta l'incapacità di darsi pace. 
Quando finalmente odiamo il grido "Soffia! E' Moby Dick! Soffia, sotto vento!" quasi tiriamo un sospiro di sollievo e nel mentre siamo pieni di terrore.
Cosa succede davvero quando l'uomo trova ciò che ha popolato i suoi più neri incubi? Quale meccanismo si mette in modo, nel momento in cui la maschera viene tolta, e il muro divelto? Può un uomo abbracciare il mistero e svelarlo? 
Quasi ho sperato che Achab si ravvedesse e, dopo il secondo attacco, tornasse alla sua nave e prendesse la strada di casa, ma poi mi sono resa conto che un uomo che si sente tormentato, sotto scacco di questa immensa domanda, questa immensa tortura che lo racchiude, non possiede nemmeno una casa. La terra è solo polvere, la nave è un insieme di assi di legno e tutto ciò che conta è scontrarsi contro la fronte delle proprie paure. Le balene, come dice Melville, hanno una fronte senza sensibilità, una fronte che può sopportare gli urti più terribili e mandare in pezzi una nave. 
Sinceramente, ho adorato tutti i discorsi riguardo la fisionomia della balena, e mi sono innamorata dell'argomento, ma il tema della dicotomia eterna tra l'uomo e il male, tra l'uomo e le sue paure, tra l'uomo e l'universo, l'irraggiungibile, è assolutamente qualcosa a cui ognuno di noi deve pensare prima o poi. Tutti quanti in un momento della vita, prima o dopo, si rendono conto di quanto è piccolo l'uomo.

"Life is bigger, is bigger then you." Cantano i REM. Ed è vero.


Il romanzo non poteva che finire "male" ma male è la parola giusta? O forse dovrei dire che finisce come l'uomo stesso finisce, colando a picco con la propria testardaggine. Dopo una vita di sacrifici, tentativi, viene premiato con la morte, e non una morte serena - una morte che è delusione, culmine della sua sofferenza, e sconfitta. 
Achab lotta fino alla fine, ma non credo gli interessasse di salvarsi la pelle; ha strenuamente ripetuto, più volte nel corso del romanzo, che il suo corpo non gli appartiene più, e che si armerebbe di pezzi di legno e sarebbe la stessa cosa della carne. Laddove ha perso la gamba, sente sempre uno sfrigolio, come se quella fosse ancora li e non nelle fauci di Moby Dick, negli oceani immensi dove questa l'ha portata. La sua lotta è finalizzata all'uccisione, al tentativo folle e disperato di eliminare quell'altro essere che lui odia. 
Moby Dick alla fine stermina Achab e l'intero equipaggio del Pequod. Affondano nei flutti scuri anche i tre ramponieri, quegli invincibili uomini ritratti come dei. Tutto scompare, senza un lamento, tranne, per forza di cose, Ismaele. Egli si aggrappa a quella cassa che Queequeg s'era fatto costruire, nel momento in cui aveva deciso di passare all'altro mondo, e poi viene tratto in salvo dalla Rachele, che ancora continuava i suoi giri a vuoto, alla ricerca del figlio del Capitano Gardiner. 


"Era la Rachele che andava bordeggiando, e che nel rifare la sua rotta in cerca dei figli perduti, trovò solo un altro orfano."



Busy Bee.